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Prima noi

[In chiesa]

Non penserà certo di sedersi qui, eh? Siamo già abbastanza stretti. Poteva svegliarsi prima. Poteva arrivare in orario, o in anticipo. Poi, chissà da dove viene? Non mi pare nemmeno di riconoscerlo. Magari non è nemmeno della nostra parrocchia. Io di sicuro non mi faccio più in là, se ne stia in piedi in fondo alla navata.  Ecco, lì, lì davanti c’è un posto. Ah, no, ora che guardo meglio, quel posto è occupato da Concetta, sicuramente lo terrà per il nipote che arriva sempre un po’ in ritardo. D’altronde, se Concetta è arrivata al momento giusto, avrà pure il diritto di riservare il posto per il nipote, no?

[Sull’autobus]

Che salti la fermata, l’autista, non vede come siamo ammassati uno sull’altro? Non è mica colpa nostra se l’autobus è così pieno. Dovrebbero passarne di più. Ecco, li vedo, pretendono di salire, si avanti c’è posto dicono loro, che vadano loro avanti allora, io di qui non mi muovo, ma figurarsi. Non c’è più rispetto. Aspetteranno la prossima corsa. O faranno un po’ di strada piedi, non è che adesso tutto il mondo debba salire proprio su questo autobus perché loro hanno deciso di prenderlo proprio adesso. Ma tu guarda che mondo.

[Al centro sociale]

L’abbiamo costruito noi, questo posto, io me le ricordo bene le pesche di beneficenza, e la fatica che abbiamo fatto a svuotare cantine, e le collette. L’abbiamo costruito con il sudore della nostra fronte, e quanto ci siamo battuti per averlo dal Comune! Non è stato facile, proprio per niente. Abbiamo dovuto convincere sindaco e assessori, e tutto il tempo che abbiamo trascorso per imbiancare, e sistemare le sedie. Me la ricordo ancora la festa di quando portammo qui il primo mangiadischi. E adesso? Adesso dovremmo condividerlo? Vorrebbero fare dei corsi di italiano, dice quel funzionario con la puzza sotto il naso che ha il coraggio di ricordarci che questa è una sala pubblica? Certo che lo sappiamo, questa è la nostra sala pubblica. E i loro corsi di italiano se li facciano a casa loro. Noi abbiamo i nostri balli di gruppo, la sala ci serve. Ma insomma.

Non siamo razzisti, siamo solo un po’ s****zi.

E mo’…bici!

Ebbene l’ho fatto. Sono tornato in bici, a quasi vent’anni da quel furto che segnò negativamente la mia esperienza di ciclista sotto le due torri. Era il 2000, dopo 6 anni a cavallo di ferraglia sgangherata, troppo arrugginita per interessare un ladro, avevo finalmente deciso di acquistare una bicicletta. 250 mila lire, usata, ma per un laureando era tanto, “tanta roba” come dicono a Bologna. Durò poche settimane, e l’immagine dei due lucchetti spaccati ancora evidentemente sconvolti e abbracciati al palo dove l’avevo legata mi ha perseguitato per anni.
Ma con Mobike è tutto diverso. Il funzionamento lo conoscete, si installa una app, si caricano pochi euro sul conto, e attraverso una mappa si va alla ricerca della bici più vicina da individuare, sbloccare, e lasciare una volta arrivati a destinazione.

La prima sgradevole impressione è che l’italiano è pur sempre un italiano, anche se va in bici. Ho individuato almeno tre mobike vicine a casa mia, ma invisibili: semplicemente, il genio l’ha lasciata in garage, per poterne usufruire a proprio piacimento. Si tratta di un malcostume che – ho letto – è piuttosto comune, e racconta bene la crisi prima di tutto morale di un paese che non riesce a superare le sue grettezze.

La seconda impressione è l’euforia di tornare a circolare in bici dopo tanti anni, su una bici tutto sommato comoda. Ha tre marce: la marcia Fantozzi con cui puoi pedalare quanto vuoi, resti sermpre lì, la marcia Coppi, con cui hai l’impressione di scalare le Alpi anche se sei in via Indipendenza, e una marcia intermedia che chiameremo “tu” perché è quella che userai tu. Ricorda che se sono trascorsi vent’anni dall’ultima volta che hai preso la bici, ne sono trascorsi venti anche per la tua prostata. Trattala bene. Le strade del centro di Bologna non hanno il problema delle buche, ma il rimbalzo sui mattoni di via Zamboni fanno male lo stesso. Penso che gli over 40 apprezzerebbero molto una versione moll-bike con un sedile imbottito e comodo, ma non stiamo a piagnucolarci addosso, che con la pancia le lacrime si fermano tutte sull’addome e non è bello.

La terza impressione è che le piste ciclabili sono belle (specie quando sono vere piste e non banali strisce bianche sul marciapiede) ma hanno la brutta tendenza a portarti dove vogliono loro. Perché tu ti fai prendere da quella trance agonistica e segui quelle strade con passione, ed è un attimo finire alla Bolognina quando invece dove andare in Via Saragozza. Non ho provato la tangenziale delle bici, ma so che quando lo farò comincerò a girare in circolo dimentico completamente delle destinazione, nel caso venite a cercarmi addormentato vicino a qualche albero, senza nemmeno l’ansia che qualcuno mi porti via la bici.

Mobike m’hai provocato, e io te pedalo.

Non esistono ritardi, solo poderosi anticipi

Guida del busIn linea di principio sono favorevole ai mezzi pubblici, specie per gli spostamenti ripetitivi come il tragitto casa lavoro. Però un conto è prendere la metropolitana a Tokio, un conto è avere a che fare con i mezzi pubblici italiani, specie poi se vanno abbinati treno e bus. Ebbene, alcuni giorni fa ho deciso di rischiare questa combinazione, e devo dire che ne sono molto soddisfatto, perché si è trattato di un’esperienza che mi ha aperto nuovi orizzonti. Ebbene, considerate che in auto il mio tragitto casa lavoro impiega circa 50 minuti, dalla porta di casa a quella dell’ufficio. Con i mezzi pubblici (autobus prima e treno poi) questo periodo si allunga un po’. Si stiracchia. Si dilata, e parecchio. Insomma, il tempo necessario diventa di un’ora e cinquanta minuti. Eppure, nonostante tutto, credo che ne valga la pena, perché è tempo che puoi dedicare a leggere, ascoltare la radio senza preoccuparti delle curve, addirittura, grazie alle nuove tecnologie, a guardare un film o scrivere un racconto.
Però, c’è un però. Perché il tragitto duri un’ora e cinquanta, bisogna che i due attori, autobus e treno, collaborino. E soprattutto il primo non è sempre d’accordo. Perché si tratta del famigerato autobus 36. Rispetto alla lombarda frequenza di un 20, o alla meticolosa precisione bolognese di un 13, il 36 è un autobus che ha lo sprint e la puntualità tipica dei pugliesi. Passa quando e se ne ha voglia, e se non gli stai simpatico, non passa affatto. Oltre tutto è un autobus che fa dei giri insoliti, incomprensibili, persino divertenti per chi non ha fretta. Insomma, la mattina in questione mi sono presentato alle fermata alle ore 7,15 circa, cinque minuti prima del passaggio previsto. Ma alle sette e venti non c’era traccia del 36. Neanche alle sette e trenta. Si è presentato tranquillamente alle 7,40 o giù di lì, con il risultato di aver bruciato la mia coincidenza con il treno causandomi l’arrivo in ufficio alle dieci. A quel punto mi sono risentito, e ho inviato un reclamo a Tper. Non che mi aspettassi chissà che, ma insomma, è inutile fare azioni culturali che incentivino il mezzo pubblico, se poi ti fa arrivare in ufficio due ore dopo.
E la risposta è arrivata.
Illuminante.
Di più, abbagliante.
Come non ho fatto a non pensarci prima? E che razzi di geni della teoretica speculativa sono quelli di Tper per rispondere così? Infatti, come mi ha spiegato la comunicazione ricevuta, non c’è stato alcun ritardo. Al contrario, l’autobus è passato in anticipo, come dimostrato dai loro mezzi di controllo (loro sostengono una anticipo di due minuti, secondo me erano almeno sette, ma non è questo il punto). In anticipo! Capite che questo stravolge ogni prospettiva. Non ci sono autus in ritardo, ma solo corse che addirittura fanno prima del previsto. Stolti noi a non capire che l’autbus che arriva venti minuti dopo l’orario previsto è in realtà quello di mezz’ora dopo che per venirci incontro passa prima.
Bisognerebbe allargare l’orizzonte quasi profetico di questa dichiarazione. Il PIL non sta calando, sta prendendo la rincorsa. In Italia non ci sono disoccupati, ma solo lavoratori con lunghe ferie non pagate. Quella non è una salita, idiota. Si tratta di una discesa: se l’affronti camminando all’indietro vedrai che cambio di prospettiva.
Non so voi, ma io mi sento già meglio.

La radio di notte

La radio di notte è un viaggio frettoloso che ti riporterà a casa, con vent’anni di sogni svaniti sulle spalle e il sapore del caffè che si mescola con quello del dentifricio.
La radio di notte è quel percorso al quale ti sei preparato mentalmente centinaia volte, l’unico tuo ruolo decisivo in questa fase del processo riproduttivo, eppure in nessuna di quelle centinaia di proiezioni eri così teso ed emozionato.
La radio di notte è un pensiero che schiaccia le spalle e non vuole andar via, e ritorna prepotente tra le pieghe delle lenzuola fino alla tua resa di fronte ad una tazza di camomilla
La radio di notte è la compagna di solitudini non cercate, una traccia di evidenziatore su certe pagine grigie della nostra esistenza.
La radio di notte è una frequenza insolita che trasmette musica di cinquant’anni fa e se ne vanta pure.
La radio di notte è una voce profonda e lenta che ti accompagna senza l’ansia e le risate a comando delle ore mattutine.
La radio di notte è un foglio di carta stropicciato in fondo alla tasca dei pantaloni che ci ricorda che la vita continua anche in nostra assenza.

Noi che abbiamo visto due volte l’Italia vincere i mondiali

Caro dodicenne appassionato di calcio, questa mia lettera vuol essere un affettuoso incitamento ad andare avanti con le tue passioni, nonostante tutto. Nonostante Ventura e Tavecchio, nonostante un campionato che nella sfida scudetto Juventus-Napoli presentava in campo tre italiani. Nonostante stiano per cominciare i mondiali, e l’Italia non è neanche ai nastri di partenza. Non che rivedere l’umiliazione delle ultime due edizioni avrebbe migliorato la nostra autostima, ma almeno avremmo avuto qualche speranza iniziale. Almeno avresti potuto organizzarti una di quelle maratone calcistiche che solo a quell’età puoi goderti con spensieratezza, quell’età in cui le giornate non finiscono mai e il tempo davanti a te sempre inesauribile.

Per Messico 86 il fuso orario non ci agevolava troppo, ma ciò nonostante vidi quasi tutte le partite, e pazienza se la nostra squadra andò a sbattere contro la Francia di Platini, quello era il mondiale della “Mano de Dios” e fu bello esserci anche se per poco. Ho dei ricordi non molto a fuoco ma non perché siano passati gli anni, ma perché i collegamenti via satellite e il tubo catodico del tempo facevano davvero pena. Italia 90 fu l’apoteosi adolescenziale, mi vidi persino la cerimonia di inaugurazione, registrai partite senza motivo (erano gli anni del delirio VHS), vidi persino – e con soddisfazione – partite tipo Camerun-Romania. Per la prima partita, Argentina-Camerun, prenotai il televisore del soggiorno, ci piazzai la poltrona di fronte e mi preparai un’orzata ghiacciata (era il massimo della trasgressione che potevo permettermi). La partita si giocava al pomeriggio, per cui non creai nessun problema familiare. E la sera le partite ce le guardavamo all’arena all’aperto: alla passione per il calcio potevamo provare anche a mescolare qualche infatuazione non ricambiata per le ragazzine che venivano all’arena e facevano domande tipo “dove dobbiamo segnare noi?”.

Certo che finì molto male, però le notti magiche sono state foriere di emozioni, come quell’incredibile squadra, in cui pochi credevano, che quattro anni dopo si fermò solo ai rigori contro il Brasile. Non starò a raccontare tutti i mondiali, per quelli ci sono le cronache sportive. Posso però dire che quando si trattò di decidere la data delle nozze, con molti mesi di anticipo, volli prima consultare il calendario dei mondiali. Ma figurati, mi derisero in molti. Scherzate pure, dissi io, ma preferisco sposarmi quando il mondiale sarà finito. Ve la immaginate una cerimonia il giorno della semifinale se gioca l’Italia? Con tutti che scappano via prima che cominci la partita. E così, anziché il 7 luglio, mi sposai il 14. Da campione del mondo.

La mia generazione è stata fortunata, lo dobbiamo ammettere. Siamo arrivati ad un punto calcisticamente così basso da poterci vantare di essere quelli che hanno visto due volte l’Italia vincere i mondiali, una volta seconda, una volta terza. Cosa è successo nel frattempo non lo so, ma ricordo ancora bene quell’emozione a soli sette anni, Cabrini che sbaglia il rigore, poi quell’euforia che mi portò addirittura ad avere un po’ di febbre, e a rimanere alla finestra mentre tutti fuori festeggiavano e sventolavano le bandiere. E le urla del 2006, la testata di Zidane, sbeffeggiare tedeschi prima e francesi poi, con molta più soddisfazione, va detto, di quanto non ci piacque nel 1982 far fuori Brasile e Argentina.

Caro dodicenne appassionato di calcio, forse l’Italia tornerà a vincere, o almeno a partecipare, ma certo tu non avrai più l’età giusta per goderti centinaia di partite. Puoi sempre fare il tifo per l’Islanda. E magari con le ragazzine che ti chiederanno da che parte bisogna segnare avrai pure più fortuna di noi.

E companatico senza pane… la mia esperienza con Fico

Gli orti di Fico
Gli orti di Fico. Insomma, ne ho visti di migliori.

Ho finalmente visitato Fico, la Fabbrica Italiana Contadina di EatItaly, di cui ho preferito non parlare prima perché sono convinto che prima di criticare qualcosa bisogna vederla e provarla. E devo dire che l’esperienza non è stata negativa, a patto di chiarire alcuni aspetti.
La comunicazione da me percepita da parte di di Fico, in questi primi mesi di vita, si è focalizzata sull’idea della promozione del cibo genuino, della filiera italiana dell’alimentare, della conoscenza eno-gastronomica. Si parlava di un posto adatto agli studenti e alle scolaresche, di un’esperienza per riscoprire il nostro rapporto con la tavola, e in questa logica si era arrivati a parlare di Disneyland del cibo.

Ebbene, questa comunicazione secondo me è fuorviante, tronfia, presuntuosa e in ultima istanza inefficace. Se davvero vi aspettate una Disneyland, e cioè intrattenimento, gioco, cultura (pop, certo, ma pur sempre cultura), non troverete nulla di tutto questo. O molto poco. Fico è uno centro commerciale. Un bellissimo, innovativo, per certi versi straordinario centro commerciale. Non sono certo Gardaland ma neanche le città d’arte o le fiere specializzate i concorrenti di Fico, ma semmai l’Ikea. Avete presente quelle domeniche pomeriggio uggiose in cui la vostra compagna o un amico – che spero allontaniate presto perché le amicizie vanno selezionate – vi convince a fare un giro all’Ikea, e mangiare salmone surgelato, e fare un giro tra prodotti di cui non avete bisogno, in un mondo luccicante e finto dove abbiamo deciso di sprecare il nostro tempo? Ebbene, è quello il tipo di esperienza che vi offre Fico, ed il vantaggio non è da poco, perché è meglio portarsi a casa una bottiglia di birra artigianale che un set di posate di plastica dai colori allucinanti.

Ristoranti vuoti
Ore 12,50 di sabato. Diciamo che nei ristoranti migliori c’è posto anche senza prenotare

Se solo oggi non ci fosse questa ossessione del politically correct per cui si allestisce un enorme centro commerciale proprio mentre in tanti chiudono, e anziché dire onestamente che l’obiettivo è vendere prodotti alimentari costosi (e di qualità), si parla di “riscoperta del rapporto con la terra”, probabilmente Fico sarebbe più simpatico. Ma davvero secondo i gestori bastano quattro vacche, due pecorelle e un orticello a ridarci la meraviglia della civiltà contadina? Grazie al cielo non siamo ancora in una realtà virtuale alla Black Mirror, di orti veri ce ne sono anche in città, e la provincia è piena di fattorie didattiche dove davvero fare esperienza della vita in campagna. Poi per carità, io non ci trovo niente di male in questa mini fattoria, ai bimbi piace, l’importante è che gli animali siano trattati bene, e magari togliamo quell’orrenda vetrinetta piena di astici “freschi” pronti a essere serviti. Non griderò liberate le aragoste, ma è così che nascono i vegani, cavolo, stiamo attenti ai dettagli.

Ma insomma, cos’è Fico? Un enorme galleria commerciale piena di ristoranti, punti di ristoro, negozi alimentari specializzati, qualche area all’aperto “contadina” (gli orti e le stalle di cui sopra) e sei punti, pomposamente chiamati giostre, dove fare esperienze multimediali. Esperienze che forse sono l’aspetto migliore dell’iniziativa: è stato più appagato il mio lato nerd, nell’apprezzare un video a 360° sulla scoperta del fuoco, molto suggestivo, che non quello ambientalista, che si domanda come si può parlare di riscoperta della terra in un posto in cui gli alberi sono di plexigass e hanno luci led al posto delle foglie. Questi punti sono gli unici aspetti “formativi” di Fico, e devo dire che sono interessanti: ricordano molto l’esperienza di Expo, per capirci, che deve essere rimasta ben impressa a chi ha progettato Fico. Schermi multimediali interattivi, videoproiettori, luci ben calibrate, però la forma in questo caso è più della sostanza, per cui sono sicuro che le mie figlie si ricorderanno di più del gioco in cui con un timone piloti una nave, che non della spiegazione sulla pesca nel Mediterraneo che avrebbe dovuto agevolare. Queste giostre originariamente dovevano prevedere un biglietto di ingresso anche costosetto (circa due euro l’una a persona), ma si è capito che non era il caso, e adesso tra sconti e agevolazioni una famiglia se le vede tutte con una quindicina di euro.

Giostre di Fico
Gli spazi multimediali sono curati e suggestivi. Ma visti una volta…

Ci sono anche delle belle sale “cinema”, alta definizione, audio surround, quasi sempre vuote, e il motivo è semplice, i video talvolta sono terribili. Mi dispiace per Maurizio Nichetti, regista che stimo e che li ha curati, ma proprio questi video mi sono sembrati cavoli a merenda. Sono realizzati da studenti di cinematografia, Fico ci fa notare in più circostanze che probabilmente non sono costati niente, quasi a mettere le mani avanti, e dei video degli studenti hanno tutti i difetti: ossessiva ricerca della scena madre, sfocature volute, primissimi piani e fotografia da spot, inquadrature sghembe, rallenty, animazioni al livello dei cartoni animati sovietici degli anni ottanta. Quello che ti aspetti da uno studente, ma che un professionista non farebbe. Mi spiegate cosa dovrei trovare di appagante in un rallenty di un fagiolo che si rotola su se stesso, scivola, incontra una goccia d’acqua, cade a precipizio e finalmente finisce e atterra in un’insalata? Mandateci piuttosto una puntata di Linea Verde, è più interessante, e poi parla di cibo. Per non parlare del video in cui due ballerini seminudi si palpano, si accarezzano, si cercano, e il tutto dovrebbe aiutarci a capire il nostro rapporto con il fuoco. Che poi per me il balletto moderno sempre quello ha rappresentato, il vorrei ma non posso di un fisicato che guarda la sua donna, sospira, la sfiora, le sussurra “ti darei volentieri due colpi come dico io ma sai com’è, questa calzamaglia contenitiva ha degli effetti collaterali…”. Ma non divaghiamo, sono io uno zotico che non comprende il balletto, ma davvero, mi aspettavo qualche breve documentario sulla produzione del vino, la coltivazione del riso, cose adatte ad un sempliciotto come me. Davvero, Signor Fico, ripensa a questi schermi, alla peggio collegali su Rai Yoyo che almeno i bambini si divertono un po’.

Astici in vendita
Liberate gli astici!

Evviva la tecnologia, allora, diciamolo con orgoglio, altro che terra. Quella c’è e va riscoperta, ma in campagna, tra i vitigni della Valsamoggia e gli allevamenti della bassa, con gli apicoltori dell’Appennino e i frutteti imolesi, mica qua. Anche perché la tecnologia ha reso migliore la nostra vita e il modo in cui mangiamo, non c’è da vergognarsi: vogliamo dirlo una volta per tutte che questa nostalgia del cibo di una volta è in larga parte una grande ca**ata? Vogliamo dirlo che l’olio “naturale” che i nostri nonni preparavano nei frantoi aperti era fatto di olive e traccie di sudore, feci, peli di animali, unghie, foglie e chissà cos’altro, altro che i container sigillati a tenuta stagna e privi di qualunque contaminazione di oggi?
Vogliamo dirlo che un conto è temere comprensibilmente le manipolazioni OGM, un conto è negare che gli innesti hanno migliorato il sapore di quasi tutto quello che mangiamo?
Tanto è vero che nell’unica giostra veramente innovativa e coraggiosa, si dimostra che in futuro non useremo più la terra per coltivare, e qui non dico oltre perché sarebbe un po’ spoiler e non voglio rovinarvi la sorpresa (per me lo è stato).

12 euro puccia pugliese, rustico e birra artigianale. In un ristorante difficilmente ci paghi il primo

Insomma, tutto bene? No. Bene l’organizzazione, bene i parcheggi (e non era scontato: a pochi centinaia di metri da qui c’è il parcheggio del centro commmerciale Meraville, progettato evidentemente da una squadra di alcolizzati sadici, con deliri di onnipotenza e nessuna conoscenza della geometria). Bene gli ambienti, perché l’uso del legno per le coperture e una sagace gestione delle luci e degli arredi rende il posto piacevole, accogliente, ben lontano da quel “capannone industriale” che hanno citato alcuni critici. Magari manca il punto con una personalità da “selfie”, l’albero della vita insomma, chissà che non ci pensino. Bene anche le giostre e persino i mediocri spazi “naturali” per orti e animali. Ma sono le proporzioni, che non tornano. In un parco dei divertimenti o in una fiera c’è l’intrattenimento, mettiamo per l’80%, e poi un 20% di ristoro e commercio. Mettiamo anche 70 e 30. Qui le cifre si capovolgono: ecco perché dico che può essere un esperimento vincente solo se lo chiamiamo per quello che è, la più grande galleria commerciale d’Italia. Per carità, da non paragonare a Ipercoop o simili, il paragone semmai è con i centri presenti all’estero tipo la Corte Ingles o Macy’s, solo focalizzato sull’alimentare. Oltre tutto l’offerta andrebbe riequilibrata, perché ci sono troppi posti che vendono prodotti che trovi anche altrove, e li paghi meno, e una sola gelateria (Carpegiani), dove occorre fare almeno mezz’ora di attesa per un gelato, con una scelta di gusti che definire essenziale è un eufemismo.

Qualcuno che mangia in effetti c’è.

Può essere interessante per un turista? Non lo so. Se ha molto tempo, forse. Ma perché passare una giornata qui dentro con tutto il ben di Dio da vedere che c’è la fuori? Non siamo mica a Dubai. Fossimo vicini all’aeroporto, probabilmente sarebbe un’idea vincente, in attesa magari di una coincidenza, o prima del volo di ritorno, mi fermo qui e faccio un po’ di shopping. L’aeroporto però è lontano.

Un altro angolo suggestivo dedicato a olio, vino e birra

In effetti ho visitato Fico oggi, sabato 31 marzo, vigilia di Pasqua, in teoria giorno di grande afflusso, ma non c’è stato, proprio per niente. Neanche vuoto, per carità, ma se queste sono le cifre di un sabato, mi domando come si farà a mantenere aperto questo baraccone nei giorni feriali. Ancora, i prezzi dei ristoranti sono medio alti, dai 40 euro a persona a molto, molto di più. Con il risultato che, almeno oggi, la stragrande maggioranza erano tristemente vuoti, mentre la gente faceva la fila nei punti ristoro più a buon prezzo (take away, finger food, insomma quelle bancarelle a cui abbiamo imparato a dare un nome inglese perché è più cool, anzi, fico). Io non sono un pauperista che si scaglia contro i prezzi alti, perché la qualità si paga, ma se voglio mangiare da Amerigo (per fare un nome), mangio volentieri nella sua trattoria di Savigno, non in questa galleria.

Insomma, bisogna che qualcosa si inventino, se vogliono che il gioco funzioni. So che c’è una sala congressi, bene, perché non usarla anche per qualche spettacolo dal vivo? Ceno e poi mi ascolto un bel concerto, o magari uno spettacolo teatrale. C’è anche un piccolo spazio “teatro” dove oggi una signora non più giovanissima faceva aerobica tipo Jane Fonda, ma insomma, si può fare di meglio, no? Possibile che tanti anni di Motor Show non abbiano insegnato niente? Va bene mangiare, ma non solo mangiare, dai. Presentazioni di libri, “firmacopie”, stand per stazioni radio o tv, qualche esibizione sportiva. E poi gonfiabili, dove sono i gonfiabili? Chi mai può predisporre oggi un business plan di un’attrazione turistica senza gonfiabili? E qualche giostra “vera”? Ho visto un campetto da minigolf, ma torno a ripetermi, si può fare molto meglio.

Il companatico c’è, è saporito, ma serve il pane.
Perché persino noi pugliesi durante i matrimoni di otto nove ore ad un certo punto ci alziamo e cominciamo a ballare.