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Potrebbe piovere

Fotografia di Daniele Tarozzi
Fotografia di Daniele Tarozzi, il mago del pozzangherismo

Quando ero piccolo le giornate di pioggia mi mettevano di buon umore, come qualunque cosa insolita e nuova. Gli stivali di gomma dai colori sgargianti, l’impermeabile con l’odore acre di plastica tirato fuori dal cassetto più in basso, quel fiume che si riversava davanti a casa e che richiedeva un po’ di equilibrio per saltare senza finire impantanati.

Per chi è cresciuto in una regione in cui l’acqua è solo quella del mare e che ha il coraggio di chiamare fiumi sputacchi aridi come il Galeso, un giorno di pioggia andava vissuto e goduto in ogni momento.
Era bello starsene sotto le coperte mentre la pioggia ticchettava contro le finestre, era bello quel senso di nido mentre fuori infuriava l’acquazzone, persino stare in classe con le luci accese aveva un che di strano e bizzarro.
Tutto ciò succedeva puglia oltre trent’anni fa.
Già da studente mi resi conto che a Bologna la faccenda stava diversamente. Ricordo che a metà degli anni novanta arrivai a segnare una quarantina di giorni di pioggia consecutiva. Greta era ancora di là a venire e ancora non si attribuiva all’inquinamento quella che, all’epoca, era fondamentalmente solo una grandissima rottura di palle.
E in fondo il sentimento resta lo stesso anche oggi, dopo l’ennesimo week-end i pioggia, quando ormai senti che ti sei rilassato abbastanza, quando la tazza di tè mentre fuori piove comincia a stufarti, quando va bene leggere alla luce di una lampada ma anche una passeggiata in centro senza ombrello, una volta tanto, potrebbe risultare divertente.
L’acqua fa bene, se vivo qui anziché nella mia meravigliosa regione arida è anche perché storicamente le aree più piovose sono le più ricche. Il verde che godremo questa estate sarà frutto anche di queste piogge. Non porti l’auto al lavaggio da mesi e almeno esteriormente non se ne accorge nessuno, anche se appena si entra il trucco è svelato.
Occorre farsi coraggio: il paese è invaso da un rigurgito fascista, odio e rancore pullulano nelle nostre conversazioni, un senso di ineluttabile decadenza pervade le nostre prospettive.

Ma in fondo potrebbe andare peggio.
Potrebbe piovere.

Prima noi

[In chiesa]

Non penserà certo di sedersi qui, eh? Siamo già abbastanza stretti. Poteva svegliarsi prima. Poteva arrivare in orario, o in anticipo. Poi, chissà da dove viene? Non mi pare nemmeno di riconoscerlo. Magari non è nemmeno della nostra parrocchia. Io di sicuro non mi faccio più in là, se ne stia in piedi in fondo alla navata.  Ecco, lì, lì davanti c’è un posto. Ah, no, ora che guardo meglio, quel posto è occupato da Concetta, sicuramente lo terrà per il nipote che arriva sempre un po’ in ritardo. D’altronde, se Concetta è arrivata al momento giusto, avrà pure il diritto di riservare il posto per il nipote, no?

[Sull’autobus]

Che salti la fermata, l’autista, non vede come siamo ammassati uno sull’altro? Non è mica colpa nostra se l’autobus è così pieno. Dovrebbero passarne di più. Ecco, li vedo, pretendono di salire, si avanti c’è posto dicono loro, che vadano loro avanti allora, io di qui non mi muovo, ma figurarsi. Non c’è più rispetto. Aspetteranno la prossima corsa. O faranno un po’ di strada piedi, non è che adesso tutto il mondo debba salire proprio su questo autobus perché loro hanno deciso di prenderlo proprio adesso. Ma tu guarda che mondo.

[Al centro sociale]

L’abbiamo costruito noi, questo posto, io me le ricordo bene le pesche di beneficenza, e la fatica che abbiamo fatto a svuotare cantine, e le collette. L’abbiamo costruito con il sudore della nostra fronte, e quanto ci siamo battuti per averlo dal Comune! Non è stato facile, proprio per niente. Abbiamo dovuto convincere sindaco e assessori, e tutto il tempo che abbiamo trascorso per imbiancare, e sistemare le sedie. Me la ricordo ancora la festa di quando portammo qui il primo mangiadischi. E adesso? Adesso dovremmo condividerlo? Vorrebbero fare dei corsi di italiano, dice quel funzionario con la puzza sotto il naso che ha il coraggio di ricordarci che questa è una sala pubblica? Certo che lo sappiamo, questa è la nostra sala pubblica. E i loro corsi di italiano se li facciano a casa loro. Noi abbiamo i nostri balli di gruppo, la sala ci serve. Ma insomma.

Non siamo razzisti, siamo solo un po’ s****zi.

E mo’…bici!

Ebbene l’ho fatto. Sono tornato in bici, a quasi vent’anni da quel furto che segnò negativamente la mia esperienza di ciclista sotto le due torri. Era il 2000, dopo 6 anni a cavallo di ferraglia sgangherata, troppo arrugginita per interessare un ladro, avevo finalmente deciso di acquistare una bicicletta. 250 mila lire, usata, ma per un laureando era tanto, “tanta roba” come dicono a Bologna. Durò poche settimane, e l’immagine dei due lucchetti spaccati ancora evidentemente sconvolti e abbracciati al palo dove l’avevo legata mi ha perseguitato per anni.
Ma con Mobike è tutto diverso. Il funzionamento lo conoscete, si installa una app, si caricano pochi euro sul conto, e attraverso una mappa si va alla ricerca della bici più vicina da individuare, sbloccare, e lasciare una volta arrivati a destinazione.

La prima sgradevole impressione è che l’italiano è pur sempre un italiano, anche se va in bici. Ho individuato almeno tre mobike vicine a casa mia, ma invisibili: semplicemente, il genio l’ha lasciata in garage, per poterne usufruire a proprio piacimento. Si tratta di un malcostume che – ho letto – è piuttosto comune, e racconta bene la crisi prima di tutto morale di un paese che non riesce a superare le sue grettezze.

La seconda impressione è l’euforia di tornare a circolare in bici dopo tanti anni, su una bici tutto sommato comoda. Ha tre marce: la marcia Fantozzi con cui puoi pedalare quanto vuoi, resti sermpre lì, la marcia Coppi, con cui hai l’impressione di scalare le Alpi anche se sei in via Indipendenza, e una marcia intermedia che chiameremo “tu” perché è quella che userai tu. Ricorda che se sono trascorsi vent’anni dall’ultima volta che hai preso la bici, ne sono trascorsi venti anche per la tua prostata. Trattala bene. Le strade del centro di Bologna non hanno il problema delle buche, ma il rimbalzo sui mattoni di via Zamboni fanno male lo stesso. Penso che gli over 40 apprezzerebbero molto una versione moll-bike con un sedile imbottito e comodo, ma non stiamo a piagnucolarci addosso, che con la pancia le lacrime si fermano tutte sull’addome e non è bello.

La terza impressione è che le piste ciclabili sono belle (specie quando sono vere piste e non banali strisce bianche sul marciapiede) ma hanno la brutta tendenza a portarti dove vogliono loro. Perché tu ti fai prendere da quella trance agonistica e segui quelle strade con passione, ed è un attimo finire alla Bolognina quando invece dove andare in Via Saragozza. Non ho provato la tangenziale delle bici, ma so che quando lo farò comincerò a girare in circolo dimentico completamente delle destinazione, nel caso venite a cercarmi addormentato vicino a qualche albero, senza nemmeno l’ansia che qualcuno mi porti via la bici.

Mobike m’hai provocato, e io te pedalo.

Non esistono ritardi, solo poderosi anticipi

Guida del busIn linea di principio sono favorevole ai mezzi pubblici, specie per gli spostamenti ripetitivi come il tragitto casa lavoro. Però un conto è prendere la metropolitana a Tokio, un conto è avere a che fare con i mezzi pubblici italiani, specie poi se vanno abbinati treno e bus. Ebbene, alcuni giorni fa ho deciso di rischiare questa combinazione, e devo dire che ne sono molto soddisfatto, perché si è trattato di un’esperienza che mi ha aperto nuovi orizzonti. Ebbene, considerate che in auto il mio tragitto casa lavoro impiega circa 50 minuti, dalla porta di casa a quella dell’ufficio. Con i mezzi pubblici (autobus prima e treno poi) questo periodo si allunga un po’. Si stiracchia. Si dilata, e parecchio. Insomma, il tempo necessario diventa di un’ora e cinquanta minuti. Eppure, nonostante tutto, credo che ne valga la pena, perché è tempo che puoi dedicare a leggere, ascoltare la radio senza preoccuparti delle curve, addirittura, grazie alle nuove tecnologie, a guardare un film o scrivere un racconto.
Però, c’è un però. Perché il tragitto duri un’ora e cinquanta, bisogna che i due attori, autobus e treno, collaborino. E soprattutto il primo non è sempre d’accordo. Perché si tratta del famigerato autobus 36. Rispetto alla lombarda frequenza di un 20, o alla meticolosa precisione bolognese di un 13, il 36 è un autobus che ha lo sprint e la puntualità tipica dei pugliesi. Passa quando e se ne ha voglia, e se non gli stai simpatico, non passa affatto. Oltre tutto è un autobus che fa dei giri insoliti, incomprensibili, persino divertenti per chi non ha fretta. Insomma, la mattina in questione mi sono presentato alle fermata alle ore 7,15 circa, cinque minuti prima del passaggio previsto. Ma alle sette e venti non c’era traccia del 36. Neanche alle sette e trenta. Si è presentato tranquillamente alle 7,40 o giù di lì, con il risultato di aver bruciato la mia coincidenza con il treno causandomi l’arrivo in ufficio alle dieci. A quel punto mi sono risentito, e ho inviato un reclamo a Tper. Non che mi aspettassi chissà che, ma insomma, è inutile fare azioni culturali che incentivino il mezzo pubblico, se poi ti fa arrivare in ufficio due ore dopo.
E la risposta è arrivata.
Illuminante.
Di più, abbagliante.
Come non ho fatto a non pensarci prima? E che razzi di geni della teoretica speculativa sono quelli di Tper per rispondere così? Infatti, come mi ha spiegato la comunicazione ricevuta, non c’è stato alcun ritardo. Al contrario, l’autobus è passato in anticipo, come dimostrato dai loro mezzi di controllo (loro sostengono una anticipo di due minuti, secondo me erano almeno sette, ma non è questo il punto). In anticipo! Capite che questo stravolge ogni prospettiva. Non ci sono autus in ritardo, ma solo corse che addirittura fanno prima del previsto. Stolti noi a non capire che l’autbus che arriva venti minuti dopo l’orario previsto è in realtà quello di mezz’ora dopo che per venirci incontro passa prima.
Bisognerebbe allargare l’orizzonte quasi profetico di questa dichiarazione. Il PIL non sta calando, sta prendendo la rincorsa. In Italia non ci sono disoccupati, ma solo lavoratori con lunghe ferie non pagate. Quella non è una salita, idiota. Si tratta di una discesa: se l’affronti camminando all’indietro vedrai che cambio di prospettiva.
Non so voi, ma io mi sento già meglio.

La radio di notte

La radio di notte è un viaggio frettoloso che ti riporterà a casa, con vent’anni di sogni svaniti sulle spalle e il sapore del caffè che si mescola con quello del dentifricio.
La radio di notte è quel percorso al quale ti sei preparato mentalmente centinaia volte, l’unico tuo ruolo decisivo in questa fase del processo riproduttivo, eppure in nessuna di quelle centinaia di proiezioni eri così teso ed emozionato.
La radio di notte è un pensiero che schiaccia le spalle e non vuole andar via, e ritorna prepotente tra le pieghe delle lenzuola fino alla tua resa di fronte ad una tazza di camomilla
La radio di notte è la compagna di solitudini non cercate, una traccia di evidenziatore su certe pagine grigie della nostra esistenza.
La radio di notte è una frequenza insolita che trasmette musica di cinquant’anni fa e se ne vanta pure.
La radio di notte è una voce profonda e lenta che ti accompagna senza l’ansia e le risate a comando delle ore mattutine.
La radio di notte è un foglio di carta stropicciato in fondo alla tasca dei pantaloni che ci ricorda che la vita continua anche in nostra assenza.

Noi che abbiamo visto due volte l’Italia vincere i mondiali

Caro dodicenne appassionato di calcio, questa mia lettera vuol essere un affettuoso incitamento ad andare avanti con le tue passioni, nonostante tutto. Nonostante Ventura e Tavecchio, nonostante un campionato che nella sfida scudetto Juventus-Napoli presentava in campo tre italiani. Nonostante stiano per cominciare i mondiali, e l’Italia non è neanche ai nastri di partenza. Non che rivedere l’umiliazione delle ultime due edizioni avrebbe migliorato la nostra autostima, ma almeno avremmo avuto qualche speranza iniziale. Almeno avresti potuto organizzarti una di quelle maratone calcistiche che solo a quell’età puoi goderti con spensieratezza, quell’età in cui le giornate non finiscono mai e il tempo davanti a te sempre inesauribile.

Per Messico 86 il fuso orario non ci agevolava troppo, ma ciò nonostante vidi quasi tutte le partite, e pazienza se la nostra squadra andò a sbattere contro la Francia di Platini, quello era il mondiale della “Mano de Dios” e fu bello esserci anche se per poco. Ho dei ricordi non molto a fuoco ma non perché siano passati gli anni, ma perché i collegamenti via satellite e il tubo catodico del tempo facevano davvero pena. Italia 90 fu l’apoteosi adolescenziale, mi vidi persino la cerimonia di inaugurazione, registrai partite senza motivo (erano gli anni del delirio VHS), vidi persino – e con soddisfazione – partite tipo Camerun-Romania. Per la prima partita, Argentina-Camerun, prenotai il televisore del soggiorno, ci piazzai la poltrona di fronte e mi preparai un’orzata ghiacciata (era il massimo della trasgressione che potevo permettermi). La partita si giocava al pomeriggio, per cui non creai nessun problema familiare. E la sera le partite ce le guardavamo all’arena all’aperto: alla passione per il calcio potevamo provare anche a mescolare qualche infatuazione non ricambiata per le ragazzine che venivano all’arena e facevano domande tipo “dove dobbiamo segnare noi?”.

Certo che finì molto male, però le notti magiche sono state foriere di emozioni, come quell’incredibile squadra, in cui pochi credevano, che quattro anni dopo si fermò solo ai rigori contro il Brasile. Non starò a raccontare tutti i mondiali, per quelli ci sono le cronache sportive. Posso però dire che quando si trattò di decidere la data delle nozze, con molti mesi di anticipo, volli prima consultare il calendario dei mondiali. Ma figurati, mi derisero in molti. Scherzate pure, dissi io, ma preferisco sposarmi quando il mondiale sarà finito. Ve la immaginate una cerimonia il giorno della semifinale se gioca l’Italia? Con tutti che scappano via prima che cominci la partita. E così, anziché il 7 luglio, mi sposai il 14. Da campione del mondo.

La mia generazione è stata fortunata, lo dobbiamo ammettere. Siamo arrivati ad un punto calcisticamente così basso da poterci vantare di essere quelli che hanno visto due volte l’Italia vincere i mondiali, una volta seconda, una volta terza. Cosa è successo nel frattempo non lo so, ma ricordo ancora bene quell’emozione a soli sette anni, Cabrini che sbaglia il rigore, poi quell’euforia che mi portò addirittura ad avere un po’ di febbre, e a rimanere alla finestra mentre tutti fuori festeggiavano e sventolavano le bandiere. E le urla del 2006, la testata di Zidane, sbeffeggiare tedeschi prima e francesi poi, con molta più soddisfazione, va detto, di quanto non ci piacque nel 1982 far fuori Brasile e Argentina.

Caro dodicenne appassionato di calcio, forse l’Italia tornerà a vincere, o almeno a partecipare, ma certo tu non avrai più l’età giusta per goderti centinaia di partite. Puoi sempre fare il tifo per l’Islanda. E magari con le ragazzine che ti chiederanno da che parte bisogna segnare avrai pure più fortuna di noi.