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Prima noi

[In chiesa]

Non penserà certo di sedersi qui, eh? Siamo già abbastanza stretti. Poteva svegliarsi prima. Poteva arrivare in orario, o in anticipo. Poi, chissà da dove viene? Non mi pare nemmeno di riconoscerlo. Magari non è nemmeno della nostra parrocchia. Io di sicuro non mi faccio più in là, se ne stia in piedi in fondo alla navata.  Ecco, lì, lì davanti c’è un posto. Ah, no, ora che guardo meglio, quel posto è occupato da Concetta, sicuramente lo terrà per il nipote che arriva sempre un po’ in ritardo. D’altronde, se Concetta è arrivata al momento giusto, avrà pure il diritto di riservare il posto per il nipote, no?

[Sull’autobus]

Che salti la fermata, l’autista, non vede come siamo ammassati uno sull’altro? Non è mica colpa nostra se l’autobus è così pieno. Dovrebbero passarne di più. Ecco, li vedo, pretendono di salire, si avanti c’è posto dicono loro, che vadano loro avanti allora, io di qui non mi muovo, ma figurarsi. Non c’è più rispetto. Aspetteranno la prossima corsa. O faranno un po’ di strada piedi, non è che adesso tutto il mondo debba salire proprio su questo autobus perché loro hanno deciso di prenderlo proprio adesso. Ma tu guarda che mondo.

[Al centro sociale]

L’abbiamo costruito noi, questo posto, io me le ricordo bene le pesche di beneficenza, e la fatica che abbiamo fatto a svuotare cantine, e le collette. L’abbiamo costruito con il sudore della nostra fronte, e quanto ci siamo battuti per averlo dal Comune! Non è stato facile, proprio per niente. Abbiamo dovuto convincere sindaco e assessori, e tutto il tempo che abbiamo trascorso per imbiancare, e sistemare le sedie. Me la ricordo ancora la festa di quando portammo qui il primo mangiadischi. E adesso? Adesso dovremmo condividerlo? Vorrebbero fare dei corsi di italiano, dice quel funzionario con la puzza sotto il naso che ha il coraggio di ricordarci che questa è una sala pubblica? Certo che lo sappiamo, questa è la nostra sala pubblica. E i loro corsi di italiano se li facciano a casa loro. Noi abbiamo i nostri balli di gruppo, la sala ci serve. Ma insomma.

Non siamo razzisti, siamo solo un po’ s****zi.

La colpa è del sistema

Non hai un lavoro perché dopo la terza media hai smesso di studiare e hai trascorso gli ultimi vent’anni sul divano dei tuoi? È colpa del sistema. Vorresti tanto diventare un cantante di successo ma la lobby delle case discografiche ti ostacola perché il tuo talento oscurerebbe i loro protetti? È colpa del sistema. Hai partecipato a decine di concorsi pubblici senza mai superare la prima prova scritta? È colpa del sistema. Hai lavorato per quarant’anni come libero professionista o commerciante dichiarando sempre pochi spiccioli e spendendo il resto, e adesso hai una pensione da fame? È colpa del sistema.
Il sistema, o se preferite in alternativa la casta, o tanti altri sinonimi, è talvolta il più grande alibi di milioni di concittadini che preferiscono le scorciatoie facili e psicologicamente rassicuranti, piuttosto che affrontare la cruda realtà e ammettere di essere delle mezze calzette. E soprattutto, di non avere nessuna voglia di impegnarsi per migliorare la situazione. Perché anche la persona più drasticamente priva di qualunque talento, può sopperire con spirito di sacrificio. Che però manca, e allora via di insulti al sistema, e a tutti quelli che ce l’hanno fatta (dal primo ministro al vicino di casa che ha un contratto a tempo indeterminato come postino), perché se loro ce l’hanno fatta non è perché sono più intelligenti, più bravi o perché si sono impegnati di più, ma perché sono raccomandati dal sistema.

Ogni volta che leggo le centinaia di commenti urlanti e insultanti di questi insoddisfatti cronici (odiatori, haters, li chiamano all’estero) che -fateci caso – pullulano sulle bacheche virtuali di tutto il mondo, mi viene da domandare loro: ma cosa fai lì? Non hai un lavoro, ne hai uno poco soddisfacente, e passi il tempo a insultare tutto il giorno? Capisco la frustrazione iniziale, ma poi deve scattare qualcos’altro, la voglia di riscatto, di ripartire, no?
Non è una novità, per inteso, la cultura dell’alibi è alla base di ogni ideologia, intesa come insieme di valori forti, rigidi, netti: per cinquantanni il mondo è stato diviso tra chi dava tutte le colpe dei mali del mondo al liberismo economico massificante e alienante e chi invece vedeva come unico ostacolo alla felicità collettiva il comunismo dittatoriale e malvagio. Non essendoci più ideologie così nette, anche gli alibi si sono frammentati, sono diventati i meridionali e gli immigrati per i leghisti, il governo centrale per i catalani, i latinoamericani per i wasp, tutto il mondo tranne i 5 Stelle per i 5 Stelle…

A questa gente rispondo con un briciolo di orgoglio che sì, faccio parte del sistema. Perché pago le tasse fino all’ultimo euro, voto quasi sempre (su certi referendum idioti proprio non ce l’ho fatta), lavoro tanto guadagnando poco, ma quel tanto che basta per una vita dignitosa. Si, sono “sistemato”. Se per una volta smetteste di guardare la pagliuzza nell’account del vostro fratello e cominciaste a liberarvi delle travi che popolano il vostro, forse trovereste una strada anche voi.

PS Se non riuscite a pubblicare insulti velenosi su questo blog, rassicuratevi: stavolta è davvero colpa del sistema, perché da queste parti l’odio non è benvenuto.

Odio l’aperitivo

Odio l’aperitivo Mi piace uscire a cena con gli amici, andare in pizzeria o in una trattoria dove chiacchierare e mangiare in tranquillità.
Mi piace anche andare a pranzo fuori, specie se è una bella giornata e al pomeriggio si può fare una passeggiata salutare. Mi piace pure fare colazione con gli amici, anche se capita più raramente, prima di un viaggio o quando si è in vacanza.
Ma l’aperitivo no.
L’aperitivo non mi piace.
Odio l’aperitivo.
Tanto per cominciare si sta quasi sempre in piedi, o comunque scomodi. Non si riesce mai a intavolare un discorso articolato perché le ragazze dopo due bicchieri a stomaco vuoto cominciano a ridere di qualcunque o cosa o si addormentano,i ragazzi invece si innervosiscono perché le patatine e i salatini lo provocano, lo stomaco, anziché riempirlo.
Odio l’aperitivo perché tutto sa di pressapochismo, di improvvisato, di precario. Non sai a che ora comincia né quando finisce. Pensi che spenderai meno di una cena, ma in realtà per un martini e due olive ti saccheggiano il portafogli. L’aperitivo ha senso se prelude a qualcos’altro da fare insieme: una cena, o un pranzo. Altrimenti è solo immensa tristezza da vorrei ma non posso.
Da impiegato che si consola perché, nonostante tutto, esce la sera. Anche se a casa, di fronte ai surgelati che lo aspettano nel frigo, un po’ di singhiozzo gli ricorderà che c’è di meglio, nella vita, di un aperitivo.