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L’ottava vibrazione, di Carlo Lucarelli

La guerra è brutta e in Africa si suda.
L’ottava vibrazione di Lucarelli è un romanzo storico che colpisce per la cura dei dettagli e l’evidente lavoro di documentazione che l’autore ha compiuto per portare alla luce un affresco corale su un periodo difficile per la storia italiana e colpevolmente trascurato, quello delle campagne d’Africa. Una serie di vicende si intrecciano e contibuiscono a rendere bene il contesto: c’è il contadino meridionale e sempliciotto, l’anarchico che non avrebbe voluto partire, c’è l’aristocrazia annoiata che aspetta di vedere cosa accadrà di questo impero coloniale, ci sono affari sentimentali e anche l’immancabile trama a sfondo giallo, forse una delle più consistenti del romanzo.
Ci sono un paio di scene madri che farebbero la fortuna di una trasposizione cinematografica (la gita in barca, l’insolito uso botanico dell’elmetto, la battaglia finale).
Eppure… eppure qualcosa nell’amalgama non funziona.
Prima di tutto perché Lucarelli osa parecchio sul piano stilistico passando continuamente dalla narrazione al passato al presente: espediente che può rendere immediata la storia e avvolgere il lettore nei fatti, ma che se eccessivo porta ad un senso di straniamento, all’interruzione di quella sospensione dell’incredulità che è necessaria per entrare in una storia senza avere l’impressione, appunto, di stare leggendo. Poi perché l’obiettivo di evitare ogni retorica è apprezzabile, ma rende talmente orribile e osceno il comportamento di buona parte dell’umanità descritta che in alcuni tratti si fa fatica a procedere nella lettura, tanto è il senso di disgusto. Infine, alcuni passaggi – per esempio le pedanti descrizioni glottologiche del diverso modo di parlare l’italiano dei militari, oppure i continui riferimenti al caldo dell’Etiopia – finiscono per rendere lo svolgimento un tantino farraginoso.
E alla fine si resta con l’impressione di aver capito che la guerra è brutta e che in Africa si suda: un po’ poco per un grande scrittore come Lucarelli dal quale era lecito aspettarsi un po’ di più.

Il club di Jane Austen

Ecco un film che con ogni probabilità piacerà al pubblico femminile: un gruppo composto da cinque donne e un uomo forma un circolo letterario per discutere dei romanzi della Austen.
Alcune sono amiche da tempo, altri si sono aggiunti, ognuno porta con sè il suo bagaglio di problemi: la giovane lesbica che si lancia in amori sfortunati, la pluri-sposata, la madre di famiglia che si scopre tradita dopo anni di matrimonio. Cosa c’è di femminile in tutto ciò?
C’è una cura esasperata dei dialoghi, a volte a dire il vero un po’ teatrali, l’attenzione e il rispetto per i sentimenti dei personaggi – a dire il vero all’inizio un po’ troppo stereotipati – e soprattutto l’assoluta assenza di azione. Uno non può aspettarsi una sparatoria o un inseguimento in un film come questo: ma almeno una bella scena d’esterni, una panoramica cittadina, un campo lungo al tramonto.
Niente di tutto questo, siamo di fronte ad un audio-libro al quale sono state aggiunte le immagini. Un’ultima nota struggente: ma ve lo immaginate in Italia un gruppo di amici (o amiche) che si incontra per discutere di letteratura? Un gruppo in cui ognuno si fa carico di leggere un libro e di discuterne con gli altri una volta al mese?
Altro che commedia sentimentale, sarebbe fantascienza…

10.000 a.C.

Ecco un film che non dovete assolutamente perdervi, forse il più divertente dell’anno. Il consiglio sincero però è quello di vederlo con amici o conoscenti, perché avrete bisogno di qualcuno che testimoni che ciò che state vedendo è vero e non il frutto di allucinazioni.
Ho riso per due ore fino alle lacrime, ma purtroppo per gli autori, questo non vorrebbe essere un film comico. Dovrebbe raccontare le leggendarie gesta di un popolo di rasta giamaicani che vivono in una specie di Groenlandia fatta di fondi del desktop (forse il Kilimangiaro, ma se vi state ponendo queste domande non avete capito che genere di film vi aspetta) diecimila anni avanti Cristo. Ovviamente esistono mammuth e altre specie che secondo gli scienziati si sarebbero estinte qualche decina di migliaia di anni prima, ma questi sono dettagli. Il popolo fricchettone – la cui tecnologia non ha conosciuto n’è l’età del bronzo nè quella del ferro e arriva a qualche lancia di osso e qualche corda – è costretto a lasciare il suo paese per seguire dei predoni che li condurranno in Egitto.
Qui gli sceneggiatori osano l’impensabile perchè arrivano a mostrarci mammuth guidati da uomini che trascinano i massi ecessari a costruire le piramidi sotto l’occhio vigile di un re extraterrestre.
Aggiungete alla storia una voce fuori campo tronfia e alcuni momenti letteralmente indimenticabili come quando l’eroe uccide un mammuth perché la bestia inciampando si conficca da sola la lancia in petto (nessun dubbio che si siano estinti se erano così stupidi) e avrete il fim più demenziale, stralunato e delirante degli ultimi dieci anni. Non occorre essere degli storici o degli antropologi per rimanere allucinati dalla faccia tosta con cui gli autori stravolgono le nostre conoscenze (ma in fondo è una favola e va presa come tale, con la stessa accuratezza scientifica di Cappuccetto Rosso). Ma non occorre nemmeno aver studiato semiologia del cinema per rendersi conto che chiamare il grande capo, il guerriero a cui tutti fanno riferimento “Tic Tic” è veramente masochistico, così come avere un personaggio che si chiama Pago che va in giro ripetendo “Io Pago… Io Pago” dimostra che anche i curatori della versione italiana non hanno un master alla Sorbona. Oppure ce l’hanno e ci stanno prendendo per i fondelli. In ogni caso, aspetto il sequel in cui mi aspetto la comparsa di Zorro tra i Babilonesi e la lotta dei gladiatori nel Colosseo contro i dinosauri.

Into the wild

Mestiere da vendere e ottima fotografia per uno dei film più sopravvalutati della stagione.
Sean Penn illustra la storia vera di un giovane neolaureato che, complice una coppia di genitori con più di una colpa da farsi perdonare, parte in un lungo giro dell’America che da Atlanta lo porterà in Messico, poi a Los Angeles e infine in Alaska.
Paesaggi mozzafiato, voce narrante fuoricampo, facile lirismo per un film troppo lungo dove tutto si prevede con largo anticipo, anche la noia.
Il montaggio che alterna gli ultimi giorni con lunghi flashback del viaggio vorrebbe dare un po’ dio brio ad una struttura pachidermica troppo pesante per prendere mai il volo.

Dado Tedeschi

Sabato scorso ho assistito allo spettacolo dalo vivo di Dado Tedeschi a Ca’ de Mandorli, a Bologna. Visto che lo spettacolo era gratuito, il minimo che possa fare per sdebitarmi è una recensione. Comincio col dire che, per chi non l’avesse mai visto a Zelig Off, Dado ha il phisique du role per il cabaret: rotondo e pelato, ispira simpatia al primo sguardo.
Ed è bravo: ha il ritmo frenetico e martellante di chi ha imparato i tempi stringati della televisione, la capacità di improvvisare e interagire con il pubblico, una gamma di argomenti che spaziano dal quotidiano ai ricordi di bambino, dall’immancabile momento sul sesso all’autobiografia vera o falsa. Un’ora di risate e divertimento, insomma, con un bel finale che dimostra le capacità autorali di Dado e non solo quelle di uomo di palcoscenico. Una battuta da citare?
Ti accorgi di essere diventato vecchio quando ti cade una monetina da dieci centesimi per terra e lasciandola lì ti dici: ma sì…”.
Alzi la mano chi ha vissuto l’esperienza…

La ragazza del lago

Storditi da squadre di polizia, distretti e capitani che supereroeggiano sugli schermi televisivi rispettando i tempi delle pubblicità e senza richiedere mai uno sforzo interpretativo eccessivo alla telespettatrice che stira mentre segue la fiction, potremmo aver dimenticato che c’è un altro modo di raccontare storie gialle.
Il modo del cinema, quello vero, quello che sta agli sceneggiati televisivi come le lasagne stanno all’hamburger: e questo mondo vive tutto ne "La ragazza del lago", giustamente ricoperto di David (da non pronuciare "Devid" come alcune vallettone televisive che hanno preparato il loro curriculum più sulla costa smeralda che in una università) di Donatello.
Un film dove, tanto per cominciare, il paesaggio non è stucchevole cartolina pieno di stereotipi. Non ci sono preti simpatici e nemmeno agenti di polizia un po’ stupidi ma volenterosi. Non ci sono neppure madri di famiglia energiche e popolari. Ci sono lunghi silenzi, riflessi spettrali sul lago, sentimenti non espressi, ricordi che non vogliono andare via. Ci sono quei sensi di colpa che la cultura televisiva si ostina pervicacemente a ostacolare, vedi alla voce "chissenefrega" di tanti psicologi d’accatto e da salotto.C’è il dolore della malattia e dell’incapacità di ricoprire un ruolo che gli altri si aspettano da noi. C’è la disperata consapevolezza che non c’è scritto da nessuna parte che domani è un nuovo giorno e andrà meglio. Bravi gli attori, su tutti Toni Servillo ma anche Valeria Golino, che nei ruoli importanti ma da non protagonista dà il meglio di sè.
Andate a vederlo, ma senza patatine e popcorn da sgranocchiare, che non è il caso…