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Little Miss Sunshine

Un nonno erotomane che sniffa cocaina, uno zio intellettuale illustre studioso di Proust cacciato dall’Università perché gay e tentato suicida, un quindicenne che odia il mondo e ha smesso di parlare, una piccola che sogna di diventare Piccola Miss California (La Little Miss Sunshine del titolo), un padre convinto di aver scritto le regole infallibili per il successo e una mamma che tiene disperatamente insieme questa famiglia sgangherata. Sono quesi i protagonisti, solo apparentemente stereotipati, di un viaggio su un vecchio pulmino Wolfswagen che li porterà alle finali nazionali di Miss California, alla scoperta di se stessi e dei veri valori. Una storia non particolarmente originale tenuta insieme da una sceneggiatura strepitosa e una regina sapiente a mescolare i toni della commedia (un paio di scene sono di una comicità strepitosa) con quelli del dramma e della malinconia. Un film straordinariamente americano nella sua capacità di criticare velenosamente un sistema (la filosofia del successo a tutti i costi, la burocrazia insensibile, il mito dell’apparire, la discriminazione degli omosessuali) pur rimanendoci ancorato dentro, con il sano ottimismo dell’America liberal che rompe le regole (scassando il parcheggio dell’Hotel) ma non troppo (il tono ossequioso con il quale il padre si rivolge al vigile che li ferma).
Se amate i Simpsons non potete perderlo.

21 grammi

Disperato, cupo, angosciante: 21 grammi è un malinconico inno allo sconforto, al male di vivere, all’avvilimento.
Non ci sono buoni e cattivi, non c’è Dio, non c’è senso: nella storia di Gonzalez Inarritu ci sono solo piccoli egoisti esseri umani che cercano di arrabattarsi tra le difficoltà ma ogni volta che provano a rialzarsi finiscono schiacciati dalla disgrazia. Un filmettino leggero, insomma, roba che in confronto Amedeo Nazzari era Asterix, ma un film comunque notevole, nella sua ostentata negazione di ogni speranza.
Straordinari soprattutto gli attori, Sean Penn che trasuda scoramento e Benicio del Toro condannato alla dannazione sempre e comunque. Peccato solo per la costruzione temporale non sequenziale esasperata e poco funzionale (vediamo pezzetti di trama in disordine, e poi dobbiamo ricostruire i fatti) soprattutto perché a tre quarti di film sappiamo già quale sarà il finale… e sinceramente non vediamo l’ora che arrivi, per poter espellere il dvd, nasconderlo in libreria e ritornare a vivere con Asterix, Shreck o qualunque altro film senza Sean Penn

Syriana

Girato in maniera asciutta, netta, privilegiando un approccio episodico talvolta un po’ ostico ma affascinante , Syriana è un film agghiacciante, soprattutto alla luce di quello che sta accadendo in questi giorni in Libano. Un film corale che, dietro la tranquillizzante professionalità di Hollywood, i volti noti di Clooney e Dillon, le apparenze di un thriller di fantapolitica, nasconde una denuncia estrema, nitida, perentoria, di gran lunga più violenta di certi ripetitivi slogan noglobal. Un film da vedere, nonostante un po’ di sadismo compiaciuto e il costante rischio di cadere nel luogo comune (le villette a schiera degli impiegati americani della CIA, il principe arabo buono con gli occhi azzurri, la moglie saggia del giovane yuppies). Molto bello il personaggio minore dell’avvocato di colore con padre alcolizzato ma, forse, più vigile di lui.

Sin City: quando si dice un fumettone


Frank Miller è un ottimo autore di fumetti americani che, visto il livello medio (Muoviti SuperCiuk, non c’è molto tempo! Dannazione Uomo Gommalacca, stavolta non mi avrai!) si è convinto di essere Dante.
Ha scritto una graphic novel (gli americani chiamano così i fumetti lunghi: allora Tex dovrebbe essere un graphic poem) che non giudico perché non l’ho letta, e ne ha tratto un film che giudico perché l’ho visto, Sin City, la città del peccato.
Non solo, Francuzzo ha pure preteso di intervenire sulla regia. Il risultato è un polpettone indigesto di due ore di squadrismo machista e sgangherato, infarcito di frasi fatte e scene pulp già (teste mozzate che esplodono, amputazioni di genitali, torture). Il direttore della fotografiaja scoperto che in digitale si possono colorare solo alcuni elementi e lasciare in bianco e nero il resto, e ripete entusiasta il trucchetto per due ore, come un ragazzino con la playstation nuova.
Dovrebbe esserci lo zampino di Tarantino, ma non c’è traccia di ironia (a parte due gangster con la fissazione dell’eloquio, completamente fuori contesto). La violenza di Tarantino è catartica, i suoi duri sono una caricatura di certi atteggiamenti da american hero. Qui no, Miller si prende maledettamente sul serio, il suo qualunquismo fracassone centrifuga pedofili e senatori corrotti, poliziotti che sfruttano le prostitute e sicari sadici, con una costruzione ad episodi della storia che, oltre ad essere poco adatta al cinema, alla fine lascia solo una sosddisfazione, quella di vedere sbudellati Vinicio Del Toro, Bruce Willis, Eliah Wood e tutti gli altri interpreti: così imparano a girare filmacci come questo.

Arrivederci amore ciao

Uno pensa: che bello, finalmente un film italiano nero, tenebroso, uno fuori dai soliti schemi della commedia con la crisi generazionale. Poi guarda "Arrivederci amore ciao" e si rende conto che se gli italiani fanno sempre commedie un motivo ci sarà.  Per comprendere il film bisogna tenere presente che il regista Michele Soavi è stato aiuto regista di Dario Argento. Ora, l’aiuto regista è uno che guarda il maestro, cerca di rubargli i segreti del mestiere e magari gira anche qualche scena, quelle più piatte che il boss non ha voglia di curare. Spesso i grandi registi sono stati prima ottimi aiuti; altrettanto spesso, però, questi ultimi dei grandi rubano soprattutto la tecnica ma non l’estro. Michele Soavi è uno convinto che la differenza tra fiction e cinema consista nel fatto che i film possono essere infarciti di soggettive inutili, inquadrature sghembe, artifici sonori e giochi di luci da spot pubblicitario dozzinale. La conseguenza è la continua rottura della sospensione dell’incredulità, perché appena lo spettatore sta per immegersi nella storia ne viene risucchiato fuori da un fuoco d’artificio del regista che gli ricorda "ehi ehi sono qui, ci so fare con la cinepresa eh?". Soavi ha fatto tanto fiction e sente il bisogno di sfoggiare la sua creatività, ma il risultato è un polpettone squilibrato nella sceneggiatura, impregnato di qualunquismo moralista, che si regge in piedi solo grazie alla bravura degli attori (soprattutto Michele Placido, fantastico, mentre Boni è fuori parte e Isabella Ferrari una bellezza sprecata). Il ritmo si regge solo grazie a massicce di violenza brutale, belle canzoni di sottofondo e la cara voce fuori campo, salvagente di sceneggiatori in crisi. In conclusione, ci auguriamo che Soavi torni a fare della fiction, dove certe libertà non gli sono concesse, mentre noi preferiremo ricordare "Insieme a te non ci sto più" per l’immensamente più degno "La stanza del figlio".

Il dottor T e le donne

La mano di Altman si nota immediatamente nella coralità di un film che conferma Richard Gere nel ruolo di "amato tra le donne" ma per una volta ne fa una vittima piuttosto che un manipolatore. Nei quartieri altolocati di una Dallas vitale e metereologicamente imprevedebile il vecchio maestro del cinema americano distilla con sapienza le sue gocce di veleno nei confronti di una società vuota, frenetica, dove ci si parla solo per telefono e dove si fa fatica ad accettare di essere quello che si è.
 Il dottor T del titolo, ginecologo di fama, scoprirà quanto complicato è l’universo di sua moglie, delle sue figlie, delle sue colleghe e delle sue amiche, con qualche lungaggine di troppo (specie le scene nello studio del dottore sanno un po’ troppo di misoginia) e un finale catartico e di speranza, dopo tanta amarezza.
 Dopo tutto, nonostante le nostre meschinità – e quelle delle donne – la vita continua.