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Tutti autoimmuni

Immaginate che qualcuno compri un’auto usata. Il venditore però gli dice: te la vendo ad un prezzo stracciato, ma guarda che non ha passato la revisione, bisogna rifare i freni. È costoso ma rischi di ammazzare qualcuno se non lo fai. L’acquirente però vuole l’impunità penale: se i freni sono rotti è colpa di quelli venuti prima, se succede qualcosa non potete prendervela con noi.
Banalizzo, ma il caso Ilva sta più o meno così. Con una differenza: più che un’auto, Ancerol Mittal ha comprato uno scuolabus pieno di bambini tarantini.
E l’unica cosa che interessa ai sindacati è che l’autista non perda il posto.

In fondo, quella dell’immunità benevolmente concessa a determinati interlocutori non è certo una novità. Forse in questo caso è stata più eclatante, aperta, trasparente, ma di governi che hanno chiuso un occhio e a volte tutti e due rispetto a comportamenti illegali ce ne sono stati eccome. Pensiamo per esempio alle circolari rivolte agli ispettori del lavoro un po’ troppo zelanti, oppure banalmente al taglio di personale o risorse se proprio non vogliono capire da che parte tira il vento. Oppure al trasferimento di certi finanzieri che, se lasciati liberi di operare, rischiano di mettere in difficoltà il tessuto produttivo con la loro fissazione feticistica per le fatture e le dichiarazioni dei redditi.

E allora facciamo un passo avanti, rendiamo pubbliche e dichiarate queste immunità. Cominciamo appunto con l’evasione fiscale: rendiamola legittima una volta per tutte senza costringere i poveri imprenditori a trasferimenti di conti, scatole vuote, società offshore. Immunità anche per i furgoni che parcheggiano in divieto di sosta o percorrono le corsie preferenziali. Bisogna rilanciare l’economia, no? Connettiamo direttamente a fiumi e mari gli scarichi delle aziende petrochimiche, se non vogliamo che si trasferiscano in Cina, e consentiamo al settore edilizio di costruire dove gli pare senza bisogno di autorizzazioni. Basterà che ci mandino una letterina per scriverci: costruisco un residence di tre piani sulla spiaggia. Se il Comune non interviene, è tutto ok.

Anzi no, la realtà a volte supera la satira: per l’edilizia funziona già così. E se vi va di abbattere quel muro portante, fate pure, purché non se ne accorgano entro 30 giorni. Per il resto ci stiamo attrezzando.
Il sogno è quello di un mondo autoimmune, in cui il cittadino sia libero di rendersi immune da quel che crede.

Libertà, uguaglianza, immunità.

Un mondo human free

È un bene che finalmente il mondo occidentale si sia reso conto, forse tardi, dell’insostenibilità ambientale del nostro stile di vita. Ripensare consumi e abitudini volte allo spreco è il primo passo per una coscienza ecologica che possa ambire a salvare il pianeta. Però le risposte, e mi riferisco al quotidiano, non ai grandi discorsi o accordi dei capi di stato, alle volte sono talmente risibili da risultare meschine.

Per esempio adesso tutti vogliamo un mondo plastic free. Bene. E contro cosa si è accanita la nostra coscienza ecologica? Contro i sacchetti della spesa. Siamo passati da un mondo in cui ci dopo aver fatto la spesa ci consegnavano dei sacchetti di plastica che riutilizzavamo per gettare l’immondizia, a un mondo virtuoso in cui facciamo la spesa in sacchetti di cotone o materiale più resistente, e poi sacchetti di plastica per gettare l’immondizia li compriamo. Solo io mi rendo conto che qualcosa non funziona?

Io ammiro l’impegno di chi vuole migliorare l’ambiente in cui viviamo, ma ragazzi, avete delle travi nei vostri occhi talmente grandi da non riuscire nemmeno lontanamente a osservare le pagliuzze in quelle degli altri. Avete bandito la carne perché gli allevamenti sono il secondo fattore di surriscaldamento globale delle temperature, poi prendete un volo low-cost ogni fine settimana per fare shopping a Londra o Praga fingendo di dimenticare che gli aerei sono il primo fattore. Avete smesso di usare cannucce di plastica sostituendole con cannucce di carta (perché se beveste dal bicchiere come umili mortali nelle foto non riuscireste a fare la boccuccia a cuoricino), perché la plastica ha generato un continente di spazzatura che galleggia sull’oceano, poi mangiate fette biscottate light impacchettate una a una perché devono mantenere la fragranza.

Non fraintendetemi, io ci credo in un mondo plastic free. È solo che credo che la vera salvezza per il nostro pianeta credo che sarebbe un mondo human free.

Per colpa di chi

Una delle mie preferite leggi di Murphy dice che chi sorride quando le cose vanno male ha già trovato qualcuno a cui dare la colpa. Si tratta di un motto universale che però è straordinariamente adatto al modo di pensare italiano. Per anni siamo stati divisi tra quelli per cui la colpa di ogni male era da imputare al capitalismo e al consumismo occidentale, e quelli per cui all’origine di tutti i problemi c’erano i comunisti, il materialismo e i sindacati.

Venuti meni questi capisaldi dell’italico scaricabarile, sono emersi nuovi capri espiatori: se il nord non produce più non è perché i nipoti degli imprenditori dilapidano le fatiche dei loro nonni in festini, orge e macchine di lusso, no, la colpa è dei meridionali che ci rubano il posto in fabbrica. Versione che poi si è evoluta nel più moderno “prima gli italiani“: prima mio figlio che si alza alle undici di mattina ogni giorno, non si è diplomato perché a scuola non lo capivano e spende 500 € al mese alle macchinette al bar, poi i profughi che parlano tre lingue e per salvarsi hanno attraversato il deserto e il mare, loro sì causa dei nostri problemi.

La fine delle ideologie ha prodotto però il moltiplicarsi dei fronti: ci sono quelli per cui la colpa di tutto è ascrivibile a chi mangia carne (dall’inquinamento atmosferico alla crisi in Libia, e forse anche i fallimenti recenti della nazionale sono colpa del prosciutto cotto), quelli per cui i credenti sono la tana in cui si annida ogni cattiveria, mentre gli atei sì che sono persone per bene (e in effetti un ateo che per il bene di tutti avrebbe voluto estirpare tutte le fedi religiose c’era, peccato secondo alcuni che l’abbiamo fermato nel 1945 prima che potesse completare l’opera).

Ci sono poi i leitmotiv immancabili, come quelli che “fattura o sconto?” con il suv dichiarato come macchinario agricolo per i quali sono i maledetti salariati a rovinare l’Italia, con le loro ferie e i loro giorni di malattia, i signori che dimenticano sistematicamente di dichiarare un conto corrente milionario (che distratto, sa, lo usiamo poco) o un reddito (sì è vero abbiamo tre appartamenti in affitto, ma è solo per non tenerli vuoti e far cambiare l’aria) e quando devono accedere a benefici pubblici la colpa è sempre dei maledetti burocrati e dei dipendenti fannulloni che ostacolano i loro piani.

Va bene, mi arrendo, la colpa è sua, è nostra, è mia. Vi fa stare meglio? Vi fa sorridere? Bene. Sorridete pure. Almeno così quando le cose vanno male saprò distinguervi dagli altri e potervi mandare a quel paese senza perdere tempo in inutili fasi istruttorie.

Taranto deve morire?

Dopo l’ultima accelerata tra le colline delle murge il treno aveva ormai intrapreso un’andatura più rilassata, con quel tipico “dlon dlon” delle ruote che stridono sulle rotaie che sembrano più vicine perchè si va più lenti. Un uomo sulla quarantina si alzò dallo scompartimento, si mosse incerto nel corridoio, andò verso un finestrino e lo aprì sorridendo. Una vampata di cattivi odori, mefitici, così disgustosi da chiudere la bocca dello stomaco invase il vagone.
L’uomo richiuse il finestrino soddisfatto e ritornò al suo posto con il sorriso sulle labbra, mentre il treno attraversava la stazione di “Cagioni”. Lanciò uno sguardo verso un altro viaggiatore che lo osservava interrogativo, e spiegò: “Quando sento questa puzza vomitevole, so di essere tornato a casa”.

Il rapporto tra Taranto e l’industria può essere sintetizzata da questa scenetta, cui ho assistito anni fa. Non si tratta solo di Ilva, perché anche il porto, la Cementir e la raffineria Eni non è che producano profumo di viole, però è chiaro che il siderurgico, grande due volte la città, fa la parte del leone.

I dati sono impressionanti e non voglio riportarli qui, migliaia di morti riconducibili all’inquinamento, decine di aziende agricole o legate all’allevamento costrette a chiudere per la presenza della diossina nei loro prodotti, allevamento dei mitili – uno dei gioielli di Taranto – in ginocchio, visto che un paio d’anni le cozze non sono più commestibili per la presenza di PBC velenosi, il turismo frenato dalla presenza di spiaggie meravigliose ma in tratti di costa non più balneabile.

Tutto ciò per i tarantini non è una novità. C’è un disegno geopolitico che risale agli anni cinquanta che vuole legare Taranto indissolubilmente al siderurgico e al porto militare, evitando qualunque altro tipo di attività che possa disturbare i manovratori di Roma. Questo perché l’acciaio serve, alle industrie settentrionali, che però rifiutano la puzza, e serve anche un porto militare pronto all’uso nel mediterraneo, di fronte al medioriente “bollente”.

Clini, il ministro per l’inquinamento ambientale, nel 2000 diceva ““La chiusura dell’altoforno e della cokeria delle Acciaierie è una questione urgente. Sul piano dei danni ambientali, dell’inquinamento e della salute dei cittadini siamo già in ritardo”. Peccato si riferisse a Genova. Chi se ne frega di Taranto, Taranto deve morire, sacrificato sull’altare della produzione nazionale.

Si calcola che in vent’anni siano più di  centomila i giovani e meno giovani che hanno lasciato la città cercando fortuna altrove. Dieci volte il numero di quelli che invece sono rimasti a lavorare nell’indotto dell’Ilva. Solo che di loro apparentemente interessa poco, così come interessa poco degli allevatori, dei contadini, dei miticoltori, dei malati oncologici.

L’azione della magistratura di questi giorni rappresenta una novità perché, per la prima volta da sessant’anni, dice che i tarantini sono cittadini come gli altri italiani. Non sono cittadini di serie B (magari: la squadra avrebbe conquistato la promozione ma poi è stata cacciata in serie D, ma questa è un’altra storia). Hanno diritto a industrie – siderurgiche, anche – che rispettino i vincoli ambientali e non semino morte, come in Corea, in Germania, Belgio.

La soluzione sembra ovvia, per una volta darebbe ragione persino al cerchiobottismo di Nichi Pendola (con i lavoratori ma anche con i padroni, con l’ambiente ma anche con la diossina, con la sinistra ma anche con la destra): i Riva sistemano il siderurgico e tutto torna a posto.

Io temo non sia così semplice. I Riva non sono “cattivi” che vogliono inquinare. Anche perché l’Ilva inquinava ugualmente, e forse di più, quando era pubblico. I Riva sono capitalisti e vogliono fare profitti, come chiunque si muove in questo mercato, e il mio timore è che se si dovesse rivelare vero che hanno corrotto politici e funzionari a destra e sinistra, spendendo un sacco di soldi, anziché mettere a norma lo stabilimento, è perché corrompere costa tanto, ma mettere a norma costa di più.

Il mio timore è che ripulire Taranto costi talmente tanto che i Riva cerchino solo un’occasione per liberarsene, e magari aprire in Cina o Brasile, dove ci sono più spazi da inquinare e una magistratura meno “invadente”. Si tratta di un timore, spero di essere smentito. Anche se mi domando se, con tutti quei milioni di euro per l’Ilva, non si potrebbero investire progetti per reimpiegare gli operai e dar loro un lavoro in altri settori. Chissà.

Intanto però l’Abramo tarantino ha condotto suo figlio Isacco sull’altare e si prepara a sacrificarlo. L’angelo grida di non farlo, che non è necessario, ma chi ascolta più gli angeli?
I ministri gridano più forte, e la puzza mefitica invade i vagoni.

Dacci una rubrica, Milena

Con questo mio post non voglio neanche lontanamente mettere in discussione la venerante adorazione che nutro nei confronti di Milena Gabanelli e in quello che fa con Report.
I servizi sono fatti bene, sono avvincenti, hanno ritmo, la giuste dose di ironia, coraggio.
Riescono a mantenere ascolti validi in prima serata in un palinsesto televisivo caratterizzato da tonnellate di gnocca più o meno diffusa ed esibita e volgarità elevata a status quo.
Però, Milena, Milena.
Mia cara Milena, ti parlo da adorante ad adorata, lo sguardo mesto e il capo chino. Lo so che a Taranto l’abbiamo fatta grossa. L’hanno, visto che io ci torno solo in vacanza e poi a dire il vero sono della provincia. Il fallimento è stato eclatante, così come la disastrosa situazione ambientale, la follia di chi vuole il rigassificatore accanto alla raffineria e ai container sudcoreani, che se proprio uno sbaglia manovra pazienza, una provincia in meno, in Puglia ce ne sono altre 5, si allarga un po’ il golfo. Insomma, siamo messi male.
Ma visto che ci citi praticamente tutte le volte, e una volta per l’inquinamento, e una volta per l’assenteismo, e una volta per le finanze dissestate, perché non dedicarci una rubrica? Invece della buona notizia, la rubrica che tira un po’ sul il morale ai telespettatori potrebbe intitolarsi: Meno male che non stiamo a Taranto.
Che ne dici? Non sarebbe che il primo passo verso un vero e proprio spin-off, una trasmissione tutta dedicata a Taranto. Risparmieresti sull’inviato, che potrebbe risiedere nella città dei due mari. Ogni tanto cambialo però sennò si intossica.
Pensaci, Milena. Oppure dimenticaci. Ma quella citazione, un bo’ buttata là, a tradimento, quando si parla di sfighe, no, non farla più, non ce la meritiamo.