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Natale ai tempi della pandemia

L’elfo rientrò nel suo ufficio, si guardò intorno e rimosse finalmente la mascherina che per il freddo gli si era attaccata al visto. C’era ancora un enorme mucchio di lettere da smaltire. Si morse un labbro e lasciò sospeso l’indice della mano destra sulla sfera di cristallo davanti a sé. La tentazione di accorciare le procedure d’ufficio fu forte. Perché non snellire una volta per tutte quella noiosa burocrazia? Perché non esaudire direttamente le richieste senza passare per lo scanner? In fondo, cosa potevano chiedere di male, quelle innocenti creature?

Sollevò lo sguardo e sulla bacheca, nascosta tra cartoline e biglietti d’auguri, si ricordò di quel ritaglio di giornale di qualche anno prima. Un suo predecessore aveva pensato bene di esaudire i bambini senza passare dal wish-checker. Il risultato fu che un bambino ricevette davvero quello che aveva richiesto, cioè una batteria di missili terra-aria. Per fortuna era un bambino cristiano sì, ma mediorientale, per cui nessuno fece più di tanto caso a un paio di aerei civili abbattuti e alla conseguente distruzione di diverse abitazioni. Fosse stato un bambino cubano o ucraino a richiedere quel regalo, avrebbe scatenato la terza guerra mondiale e sarebbe stato davvero imbarazzante per Babbo e i suoi.

L’elfo sbuffò, posò il dito e riaccese la sfera. La lettera da verificare era quella del figlio di un medico. Il suo papà aveva già fatto una ventina di volte il tampone, tornava da lavoro sfinito e spesso, quando temeva di essere infetto, non tornava per niente. Il bimbo si era fatto una idea di come risolvere il problema grazie ad Internet, sulla chat dei suoi compagni di classe, e chiedeva a Babbo Natale di far chiudere davvero tutto fino a quando la pandemia non si fosse placata.

Lo scanner mostrò gli effetti di quella scelta: dopo qualche settimana si sarebbero esaurite le scorte di cibo nei negozi di alimentari, sarebbe stata razionata l’acqua e l’energia elettrica, e dal sito loronontelodicono.it sarebbe partita una rivolta sfociata in una sanguinosa guerra civile. L’elfo mandò al bimbo una scatola di costruzioni.

La seconda lettera era quella della figlia di un ristoratore. Aveva visto il suo papà disperato piangere davanti ai conti, alle fatture da pagare e alla cassa sempre più vuota. Sapeva come risolvere quella situazione grazie ad Internet, lo spiegava bene un video di 15 secondi. Occorreva riaprire tutto, subito: e pazienza se qualche vecchio sarebbe morto, tanto moriamo tutti prima o poi. Non era neanche vero che quel virus fosse tanto grave.

L’elfo scosse la testa prevedendo già la reazione dello scanner: pandemia fuori controllo dopo poche settimane, ospedali che non potevano accogliere più pazienti, milioni di morti prima tra i vecchi, ma poi anche tra i meno vecchi che magari con gli ospedali chiusi passavano a miglior vita per una banale ferita non curata o per una indigestione. L’elfo si attivò per spedire una bambola, ma poi si ricordò del corso che aveva seguito sulla parità dei sessi e mandò anche a lei le costruzioni.

Per fortuna le altre letterine richiedevano cose più semplici, videogiochi, crediti google, abbonamenti alle pay-tv. Su queste ultime lo scanner ebbe da ridire qualcosa e qualche adolescente si ritrovò l’abbonamento a Disney Plus piuttosto che al sito a luci rosse che aveva chiesto, ma per il resto niente di che.

Poi arrivò la letterina che salvò la giornata faticosa all’elfo.
Anche in questo caso si trattava di una bambina (i maschi quando andava bene mandavano una lista o più facilmente un disegno, la scarsa alfabetizzazione mondiale stava diventando una minaccia anche per il lavoro degli elfi). La piccola chiedeva che per almeno un paio di giorni i genitori e i fratelli maggiori tornassero a guardarsi in faccia e a parlare tra di loro, anziché vivere perennemente una realtà mediata da uno schermo. Chiedeva di passare un pomeriggio a giocare a carte anziché a Minecraft, chiedeva di abbracciare il papà anziché mandargli i cuoricini in chat, chiedeva che tutti leggessero un libro, per una volta, anziché nontelodicono.it premium (questa famiglia era più agiata e poteva permettersi la versione a pagamento).
L’elfo sorrise, si stropicciò gli occhi commosso, si alzò a bere un bicchiere di latte. Purtroppo però la gioia durò poco. Si ricordò dell’ultima circolare aziendale . Babbo Natale aveva un’età, sempre più richieste da soddisfare, alla fine aveva stipulato un accordo con un grande rivenditore online che distribuiva regali tramite Internet, con una congrua commissione, ovviamente.

Sospirò, e inviò alla bambina un’altra scatola di costruzioni.

Voi l’accordo non l’avete stipulato. Se potete, disconnettetevi per un giorno. Potrete sempre mettere “mi piace” a Santo Stefano.

Essi puzzano. Fenomenologia del rompiballe

C’è quello che si lamenta della temperatura inappropriata del vino dopo aver mangiato in una tavola calda di campagna. Quello che denuncia lo scandalo di una televisione senza Sky in una pensione due stelle sul lungomare. Quello che fotografa inorridito la crepa nell’asse di legno che ha trovato sotto il divano del bed & breakfast, e la pubblica chiedendo giustizia.

Davvero, non invidierò mai i gestori di alberghi, ristoranti, villaggi turistici, e in generale chi offre servizi al pubblico, a questo genere di persone. Visto che li definirei volentieri con epiteti da codice penale, qui mi limiterò a chiamarli puzzoni, perché questa gente lascia con sé una scia di rancore, rabbia, frustrazione, una scia nauseante ovunque essi passi.

Occupandomi di comunicazione istituzionale, conosco benissimo questi individui. Più gretti, avidi e di orizzonti limitati sono, più si lamentano, e scrivono, e blaterano.

Però noi dipendenti pubblici in un certo senso ci abbiamo fatto il callo, agli insulti di chi si sente offeso se, maledetti burocrati. pretendiamo che si paghi il bollo se dovuto sui certificati, alle urla di chi si lamenta che l’ufficio non è aperto il giorno in cui lui ha deciso di presentarsi senza prima consultare niente e nessuno, alle minacce di chi non paga le tariffe scolastiche perché risulta nullatenente e manda la badante a prendere i figli all’uscita di scuola con il suv.

Però per i gestori di pubblici esercizi privati deve essere davvero dura, perché non è che possono mettere la foto di un rompiballe e scrivere “io non posso entrare” alla porta. Grazie ad internet questa fanghiglia adesso emerge, ma c’è sempre stata. Prepotenti che pretendono uno sconto perché non hanno gradito l’aperitivo di benvenuto, sociopatici che non tollerano la dimensione della stanza che non corrisponde a quello che hanno visto sul depliant, peccato che sul depliant abbiano ammirato la “suite deluxe splendor” per poi prenotare una più economica “small nofrills ex-sgabuzzo delle scope ma se a voi va bene pure a noi”.

Un film di fantascienza anni ottanta, “Essi vivono” di John Carpenter, raccontava di una invasione silenziosa di alieni, che potevano essere individuati solo grazie a speciali occhiali. Ebbene, gli occhiali per smascherare i puzzoni li abbiamo, è internet. Se solo potessimo lasciarli fuori, dai ristoranti, dai servizi pubblici, dalla vita civile, quanto saremmo tutti più felici?

Purtroppo non si può, e non ci resta che annusare l’aria intorno a noi, e prendere le distanze appena ne individuiamo l’olezzo ributtante.

Cattiva maestra Internet


computerLa mia generazione è cresciuta con un mito profondamente radicato nella nostra cultura progressista, quello della televisione cattiva, accompagnata dai giornali di parte. Indipendentemente da una attenta analisi dei contenuti, la tv era considerata un mezzo di comunicazione manipolatorio, falso, distorsivo. Un’arma nelle mani di chi la gestiva, che con il suo potere poteva esercitare un’influenza più o meno occulta su una massa ingenua e indifesa. Legati all’intramontabile idea positivista che l’uomo in fondo è buono ma va educato, ci siamo tutti convinti del fatto che la massa, questa conosciuta, era buona, ma era la tivù ad essere cattiva.

Ecco perché in tanti hanno salutato l’avvento delle nuove tecnologie, la rete, come qualcosa di innovativo e straordinariamente democratico. E forse, nei primi anni, quando si è replicato un modello tra emittente e ricevente più semplificato, perché è più facile per un giornale sopravvivere sul web di quanto non lo sia su carta, questo è stato vero. Abbiamo assistito ad un’autentica pluralità del mezzo perché tante voci si sono affacciate sul mercato dell’informazione. Anche questo mio blog, sulla quale fate una visita di tanto in tanto da ormai dodici anni, non avrebbe potuto esistere qualche decennio prima.

E poi però qualcosa ci è sfuggito di mano. Abbiamo cominciato a sentire parlare di “morte del giornalismo” da parte di blogger che rivendicavano la non appartenenza ad alcuna categoria professionale. Come se l’attività di giornalista si identificasse con quella della scrittura. Quello è l’ultimo passaggio. Prima c’è la verifica delle fonti, la raccolta delle notizie, il confronto, l’autocensura, quando necessario. Tutti passaggi che a molti blogger, ossessionati solo da click e visibilità e privi anche dei minimi fondamentali della deontologia professionale, mancano completamente. Quei blogger che rilanciano le stesse bufale da dieci anni segna sognarsi prima di fare una ricerca di pochi minuti. Un blogger che dice di fare giornalismo è come un rivenditore di pane surgelato che dice di fare il fornaio. Nessuno deve impedirglielo, ma distinguiamo le cose. E attenzione, non è questione di diplomi o ordini, ma di metodologie. La stessa persona può essere blogger, divulgatore, giornalista, medico, a seconda del contesto, ma appunto, distinguiamo il contesto. Perché altrimenti non ci accorgiamo che Internet può diventare il peggiore dei maestri.
In questi anni Internet ha colpito e distrutto, in alcuni settori, la funzione dell’intermediazione. Perché facciamo da soli. Non abbiamo bisogno di un agente di viaggio, perché ordiniamo online. Non abbiamo bisogno di un librario, perché ordiniamo online. Non abbiamo bisogno di un bancario, perché abbiamo il conto online. Non abbiamo bisogno di un farmacista, perché ordiniamo online. Ho letto di recente un articolo in merito di Baricco che mi sento di sottoscrivere. A parte l’effetto devastante che ciò ha avuto sul mercato del lavoro occidentale, dove i servizi, che erano sopravvissuti alla delocalizzazione, sono stati messi in crisi da questo sistema (migliaia di librerie e negozi di dischi che chiudono e una multinazionale che fa miliardi, scusate lo sfogo luddista ma non mi pare proprio un trionfo della sinistra), il tema è quello che non ascoltiamo più l’esperto. Il librario che ci consiglia un libro poco noto, il farmacista che ci dice di non esagerare con gli anti-infiammatori, l’agente che propone un viaggio alternativo alla Siria, di questi tempi. Non ci sono più esperti. Non riconosciamo la loro autorità perché non attribuiamo più il giusto valore al sapere e allo studio. Tu hai dedicato tutta la vita allo studio dei vaccini, e con te altri migliaia di medici? Balle, c’è un biologo nel Wyoming che dice che fanno male, l’ho letto su Internet, eh? Da strumento contro il potere, Internet è diventato strumento contro il sapere. Tu fisico mi spieghi i processo di condensazione per cui gli aerei lasciano una scia visibile ad occhio nudo? Balle, c’è un’associazione ecuadoregna che dice che sono un complotto governativo, l’ho letto su Internet, eh?

Immaginate cosa accadrebbe se un programma televisivo o una rivista promuovessero con continuità l’urinoterapia, o la negazione dell’Olocausto, o la cura del tumore con l’acqua e il limone. Oppure se si linciasse pubblicamente una persona senza che il conduttore si senta un minimo in dovere di intervenire. Proteste, cause, dimissioni, associazioni, raccolte firme. Su Internet tutto ciò esiste da sempre, e non ci sono né conduttori né, in molti casi, editori. E non è più un mezzo da universitari ventenni appassionati di Star Trek. Su Internet ci sono tutti, mamme in perenne lotta con il congiuntivo, ultras che ruggiscono dietro una tastiera e pensionati che insultano e cazzaggiano tutto il giorno su Facebook e Whatsapp ma poi si incavolano quando un ente chiede loro di mandare una e-mail.
V.O.T, cantava Baglioni anni fa parlando di tivù (Vuoti V.O.T. vuoti V.O.T. vuoti, Con le facce da idioti, V.O.T. vuoti V.O.T. vuoti, Belli beneamati e beoti…), oggi Mentana parla di webeti. C’è un filo che lega tutto.

Non era la tivù a renderci idioti. C’erano tanti idioti che guardavano la tivù. Quelli ci sono sempre stati, e sono tanti, e postano, e votano. Non c’è niente di male in tutto ciò, è la democrazia, bellezza. Però se davvero vogliamo capire quello che sta succedendo dobbiamo smetterla di leggere i corsivi degli editorialisti e cominciare a leggere i commenti sotto. Perché l’idiozia è contagiosa, ma presa per tempo si può curare.

La videocamera ha un potere magico e può fare molto male

videoLa prima volta che vidi una cinepresa ero un bambino, mi sembrava un apparecchio strano che mio padre maneggiava con estrema cura, poi qualche volta c’era una grande festa e la proiezione dei “filmini”. La vidi poche volte perché non era sua, gliela prestarono, e in giro ce n’erano davvero poco. I “filmini” (nomignolo tra il riduttivo e l’affettuoso)  erano privi di audio e tremolanti, ma evocavano un mondo al di là del pannello dove c’eravamo noi, o meglio i nostri simulacri. Duravano poco ma bastarono ad affascinarmi.

L’incontro con il video vero e propri avvenne molto più tardi, verso la fine degli anni ottanta, quando apparvero nelle famiglie dei pionieri le prime videocamere vhs. Erano enormi, andavano portate a spalla, però il salto tecnologico era stato notevole. Soprattutto, rispetto al passato, si poteva sprecare pellicola senza troppi patemi. Una videocassetta vergine non era poi così costosa. La parola verginità non mi è venuta in mente a caso, fu allora che la perdemmo, che perdemmo l’idea che prima di filmare devi pensare a quello che vuoi fare, studiare la scena, avvisare i partecipanti magari, “montare in macchina” come si dice in gergo tecnico per indicare la capacità di filmare pensando già al risultato finale.

Cominciammo a filmare le nostre feste un po’ stupide, con le solite battute grossolane, lo scemo che faceva i rutti e quello che mimava gli atti sessuali. Sebbene quelle videocassette avessero una circolazione minima, già allora quell’uso mi coinvolgeva meno. A me piaceva giocare al cinema, e fu forse per questo che tra il 93 e il 96 ho coinvolto i miei amici in cortometraggi che ancora conservo da qualche parte. Ma era un giocare rispettando una sceneggiatura, una idea, rispettando i partecipanti che erano tutti consapevoli del loro ruolo. Perché la videoripresa evoca un mondo al di là dello schermo dove c’è un simulacro di noi che ci sopravvive, eternamente o quasi, non siamo noi ma su di noi ha effetto eccome. Nel 2000 la mia carriera si concluse con un’opera di quasi 4 ore, un’Heimat dovuta soprattutto alla mia incapacità, da montatore, di sacrificare quello che avevo girato.

Poi ho continuato con i video aziendali, adesso prendo in mano la videocamera ogni tanto per i comuni per cui lavoro. Di tanto in tanto riprendo anche scene familiari, ma le tengo rigorosamente per me. Le nascondo. (Anche troppo: non ricordo più dove ho nascosto la SD con i primi anni di mia figlia, maledizione). Perché quel simulacro di noi stessi non deve allontanarsi troppo da noi, dal nostro commento, dal nostro sorriso. Non troverete miei video personali, in rete, ad eccezione di qualche presentazione di libri. Ma in quel caso si recita, in fondo, il ruolo dello scrittore è un po’ come quello dell’attore.

Perché il video ha un potere magico, ruba una parte di te, la moltiplica, la cristallizza, e può ferirti. I social network (o meglio, Internet) amplificano questo potere, ma sono solo, appunto, una cassa di risonanza. La magia è nel video; non a caso foto o testi hanno molto meno richiamo virale. I ragazzi oggi hanno smartphone che fanno riprese che vent’anni fa potevamo solo immaginare, e non si rendono conto di quale arma dispongano. Una videocamera, ancora più di una fotocamera è una bacchetta magica che se usata a sproposito può fare molto male. Pensateci, pensiamoci, prima di riprendere qualcosa che potrebbe rubarci l’anima e vederla calpestata.

Dieci segnali che indicano che la tecnologia ti ha cambiato troppo la vita

tecnologia10) Prima di andare a cena da amici controlli le recensioni sui siti specializzati
9) Stai ancora cercando una tecnica per zippare le scarpe della tua ragazza e comprimerle tutte in un cassetto
8) Prima di dire qualcosa di importante conti mentalmente che la frase non abbia più di 140 lettere
7) Cambi fruttivendolo perché il tuo ha un curriculum online non aggiornato
6) Al posto delle tende metti dei filtri colorati alle finestre
5) Usi raccomandate con ricevute di ritorno per gli auguri di Natale, perché sei abituato a sapere se gli altri leggono i tuoi messaggi
4) Ti irrita enormemente il fatto che non ci siano le mappe navigabili del mercato rionale
3) Ogni tanto pigi su una foto del quotidiano e ci resti male nel renderti conto che la carta non si muove
2) Quando guardi una partita di calcio muovi sistematicamente i pollici nel tentativo di indirizzare i giocatori in campo
1) Dopo aver sbagliato candeggio cerchi disperatamente il tasto “annulla” sulla lavatrice