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Catone il recensore

Il censore del titolo è Marco Porcio Catone, politico e scrittore romano famoso per l’austerità, la severità e l’impegno nella lotta alla corruzione. Ma i porci di cui voglio occuparmi qui io invece sono ben altri. Perché se Catone era stato eletto censore (erano magistrati chiamati al censimento ma anche di sindacare la condotta morale e civile dei cittadini) il recensore invece si autoproclama esperto in una materia, e recensisce.

Qualunque cosa. I ristoranti e gli alberghi, vabbe’. I film e i libri nemmeno a parlarne, roba del secolo scorso, per quelli il recensore spreca al massimo qualche stellina. Il fatto è che ormai il recensore non si tiene più.

Oggi ho letto per caso la recensione di un ponte. Un ponte! E non mi riferisco al ponte di Brooklyn o di San Francisco, che avranno pure valenza turistica. E nemmeno il Ponte dei sospiri di Venezia o Ponte Vecchio a Firenze, per restare da noi. No, recensiva un ponte con brillante lucidità, spiegando che congiunge due zone distanti della città (clamoroso! Perché di solito i ponti ricongiungono la stessa area? Fanno volo imprevedibili e poi ritornano). Come tutti i recensori, però, aveva una critica da muovere: da rivedere la gestione degli incidenti.
Immagino la facile obiezione: si tratta di gente che quando hai la sfortuna di incrociare al bar o peggio ancora durante una cena da amici, ha la sua per tutto. Chef, virologo, commissario tecnico, regista, scrittore, storico, ingegnere, il recensore ha una ecletticità che spaventa, e soprattutto ci mette pochissimo a diventare esperto di qualcosa.

Grazie a Google e agli altri siti che tutti conosciamo, adesso non ammorba più i commensali, ma l’universo mondo. Voi pensavate che per recensire un quartiere bisogna aver studiato urbanistica, e che per recensire un farmaco bisogna essere chimici o medici? Bla bla bla, il recensore ha già già dato due stelle al Rione Monti e 3 all’aspirina, perché è un esperto.
Ecco, diciamo una volta per tutte che l’esperto non è quello che si basa sulla sua esperienza. Quello è il cretino. L’esperto, alla sua esperienza, ha aggiunto quella di migliaia di altre persone che l’hanno trasferita attraverso i libri.
E adesso via alle recensioni.

I Cavalieri di Castelcorvo, la recensione: apri tutto, Biascica!

Sono un grande tifoso del cinema italiano. Non appassionato, non estimatore, ma tifoso: nel senso che davvero faccio il tifo per gli italiani e sono contento quando hanno successo. Il tifo non è figlio di competenza, conoscenza o valutazione razionale, ha più a che fare con la fede, ed è proprio questo il mio sentimento nei confronti delle produzioni italiane. Io spero sempre che abbiano successo, anche perché generano ricchezza culturale e non solo, danno lavoro, ricordano al mondo che esistiamo anche noi e non solo i produttori hollywoodiani.
E però.
Però il tifo porta spesso a delusioni (parlo io che da oltre trent’anni seguo il Taranto), il tifoso deluso, ahimè, sa essere crudele.

Questa premessa credo fosse necessaria per comprendere il mio stato d’animo di fronte a “I cavalieri di Castelcorvo“, prima serie Disney prodotta in Italia per la sua piattaforma. Non un documentario, non una commedia, non insomma quei prodotti in cui abbiamo un certo saper fare, ma addirittura una serie fantasy per bambini. Sono un tifoso, l’ho detto, e per cui anticipo subito: guardate questa serie. Abbiamo bisogno di riscoprire prodotti seriali italiani, bisogna che Disney si convinca che vale la pena farne. Se proprio non ce la fate, avviatela e poi andate in un’altra stanza a guardare Netflix.

Scherzi a parte, se avete bambini tra i 3 e i 10 anni, tra una puntata di Peppa Pig e la saga di Poco-Yo, potranno divertirsi. Lasciateli stare invece se sono un po’ più grandi, gli adolescenti sono spietati e la distruggerebbero. E ne avrebbero i motivi, come spiegherò nel corso di questa recensione, che ho deciso di dividere in parti, partendo da quelle più riuscite a quelle meno.

Ambientazione: 10. W l’Italia!
Niente da fare, su questo fronte non ci batte nessuno. Torre Alfina, il paese dove è stata girata la serie, è un posto bellissimo, e si vede, come anche Formello e i dintorni. Probabilmente è l’unico punto sul quale la serie vince sulla concorrenza straniera, sono un po’ mesto a dirlo, ma la buona notizia è che in Italia di posti così ce ne sono tanti che aspettano solo di essere valorizzati

Effetti speciali 8. Si fa quel che si può
Mia figlia ha più volte ripetuto che la sigla è la cosa più bella della serie (e so quello che state pensando, chissà da chi avrà preso). Anche le animazioni del gioco da tavolo sono carine. Per il resto, gli effetti sono usati con morigeratezza, ma insomma, non è un male. Se non hai Carlo Rambaldi, non improvvisare.

Soggetto: 7. Minestrone digeribile, ma a senso unico
La storia dei cavalieri di Castelcorvo richiede una forte sospensione della credulità negli spettatori più smaliziati, ma abbiamo già detto che non sono loro il pubblico di riferimento. Quattro bambini si trovano alle prese con un gioco enigmatico, una porta misteriosa e due anziane misteriose. Man mano che gli episodi si snodano acquisiranno sempre maggiori informazioni fino alla risoluzione dell’enigma. Una favoletta semplice, ma tutto sommato funziona. Gli autori attingono a piene mani dai classici del genere, da Narnia (la porta) a Jumanjii (il gioco da tavolo) dai Goonies (le dinamiche tra il gruppo di bambini), fino al più recente Strangers Thing (l’Altrove, le bici, i bulli). E potrei andare avanti. Il problema però è che se c’è una trama principale, non c’è traccia di sottotrame. Non sappiamo nulla dei genitori dei bambini, che fanno pochissime comparsate ininfluenti. La zia è poco più che un cartonato, sappiamo che vorrebbe innovare il bed & breakfast, ma il suo personaggio non ha alcuna psicologia. Qui la storia del pubblico non fa presa, se c’è qualcosa che ci hanno insegnato Disney, Pixar, Dreamworks e compagnia bella è che un programma per bambini non necessariamente è un programma “solo” per bambini. Persino in Peppa Pig i personaggi comprimari hanno maggiore spessore, e questo, come vedremo, ha effetto anche sul resto delle scelte produttive.

Casting: 4. Chi vuol fare l’attore alzi la mano. Tu, tu e tu.
Siccome i protagonisti sono tutti minorenni, non mi sembra il caso riportare i commenti che a volte ho gridato contro lo schermo a corollario della loro interpretazione. Diciamo che le ragazzine se la cavano, e anche Matteo, che interpreta il personaggio tante volte visto sullo schermo dello “sfigato” schernito e solitario che però ha un cuore grande, nella maggior parte delle scene esce a testa alta. Per gli altri, consiglio tanta, tanta, tanta scuola di recitazione. Oppure fare altro, studiare, andare in bici, giocare a calcio. Al limite andare al cinema, non farlo, che non è il caso di ripetersi. Il livello è davvero da recita parrocchiale, anche se ne ho viste di interpretate con più pathos. Hanno le stesse espressioni di emoticon: sorridente, triste, sorpreso. Basito. Ma la colpa non può essere dei bambini, ma di chi li ha scelti, e soprattutto di chi li ha diretti. Il vero dramma del casting però non è legato agli attori principali, e nemmeno ai comprimari (pochi e senza particolare spessore, come anticipato). Il guaio, e qui anticipo quella che potrebbe essere una chiave di lettura di tutta la serie, il budget limitato, è che mancano le comparse! Castelcorvo è un paese letteralmente deserto che neanche Bologna a Ferragosto. Sembra un cupo presagio del lock-down da cui sono esclusi solo una decina di interpreti. Pur essendo la storia ambientata in estate (due dei bambini sono “cittadini” in vacanza, ma il tema delle diverse culture è accennato sommariamente, purtroppo), non c’è mai nessuno per strada. Io lo capisco che non hai soldi per gli effetti speciali, ma cavolo, possibile che in 15 episodi le comparse saranno 3 in tutto? Passi il bosco e l’Altrove, ma una piazzetta non può essere perennemente deserta. Spero che su questo i produttori riflettano. Possiamo accettare che una porta conduca in un’altra dimensione, ma che in un paese estivo non ci siano né auto né pedoni, né negozi, né lavori pubblici né umarell che guardano i lavori pubblici no, a meno che non sia un film distopico post-nucleare.

Sceneggiatura: 4
I testi purtroppo sono così così. Non ci sono battute di spirito che si ricordino, e dire che il pubblico di bambini ha dimostrato da tempo di avere senso dell’umorismo e di apprezzarlo. Nulla anche sul fronte delle frasi di impatto, quelle americanate insomma alla “se io posso cambiare, e voi potete cambiare, allora tutto il mondo può cambiare”. Non solo, gli spiegoni abbondano, quasi che la serie voglia tranquillizzare il nonno con l’Alzehimer che la segue con il nipote. Per non parlare delle frasi pseudo-performative, in cui i ragazzi anticipano quello che faranno “dobbiamo andare nell’altrove e trovare il modo di liberare il fratello di Betta!”, caso mai che qualcuno non lo avesse già capito.

Fotografia: 3. Apri tutto, Biascica!
Questo purtroppo è il tasto più dolente. In Castelcorvo tutto succede in piena luce. Gli interni stile Ikea sono illuminati tipo mobilificio, fari ovunque. Le scene all’esterno sono tutte girate alle dieci del mattino di giorni sereni o giù di lì. Mai un tramonto, mai un’ombra che dia profondità a un viso, e dire che sei in un centro medievale! Non dico una scena con la pioggia, che pure in un fantasy ci starebbe, costa troppo, ma cavolo, devi proprio smarmellare sempre tutto? E l’inquadratura? Qui non è questione di soldi. Usare un grandangolo ogni tanto non costa nulla. Dare profondità di campo, nemmeno. In alcuni momenti le scene sembrano girate con quegli smartphone che mettono sempre tutto perfettamente a fuoco. Mai un controcampo, mai una soggettiva. Quando si vuole denigrare una fotografia piatta si dice che è televisiva. Ma magari! Qui siamo ai livelli degli spot degli stabilimenti balneari sui siti degli hotel per famiglia. In confronto anche lo spot del Mulino Bianco sempre girato da Storaro. Forza ragazzi, forza! Io faccio il tifo per voi ma voi una volta muovetela sta cinepresa.

Regia: 5. Metti il pilota automatico e andiamo a farci un panino, va.
Il collegamento in questo caso al passaggio precedente è evidente. Ora, io non credo che il regista di questo programma volesse davvero realizzare un prodotto così piatto: temo sia stata semmai una scelta produttiva. Perciò ai produttori dico: osate di più! Senza scadere nello sperimentale spinto, una carrellata, una panoramica ogni tanto ci può stare. I bambini sono abituati a prodotti sofisticati. Purtroppo di tutto ciò non c’è traccia. Ogni episodio ci tocca l’inquadratura del paese dal drone tipo Sereno Variabile, e va bene, ma perché poi questo drone non lo usate più? Perché non far seguire i ragazzi dall’alto durante una scena di inseguimento? Perché non osare una soggettiva in volo del corvo, uno dei protagonisti più espressivi della serie? Non occorre imitare Quarantino, basta puntare a Joe Dante.

E insomma, eccoci alla fine. Cari produttori dei Cavalieri di castelcorvo, riprovateci. Con un po’ più di coraggio magari. I nostri bambini hanno compreso benissimo le intricatissime vicende del Marvel Universe, comprendono anche una serie in cui non si spiega tutto ogni quattro minuti. E fate fare al regista il suo lavoro, ci sono impianti di videosorveglianza che dimostrano più fantasia.

L’opera struggente di un formidabile genio

Questo romanzo fa cagare. Ecco. L’ho detto. Natale è passato, possiamo anche essere un po’ meno buoni e dire le cose come stanno. Certo avrei potuto dire semplicemente che non mi è piaciuto, che è troppo lento, che le divagazioni stancano, sono poco interessanti e manifestano solo il delirio egocentrico dell’autore, che si identifica nel protagonista essendo il romanzo autobiografico. Ma non basta, perchè questo è vero di tanti romanzi, ma non tutti riportano in copertina la frase “Grande, grande scrittura. Un libro che non lascia scampo ” (a proposito, chi è il Wallace che ha dato questo commento? Devo scoprirlo).

Lo spunto di partenza è drammatico e interessante: tre fratelli e una sorella si ritrovano in pochi mesi la vita sconvolta dalla scomparsa per cancro dei due genitori. Le poche pagine non dico belle ma almeno di una qualche dignità letteraria sono proprio quelle dedicate agli ultimi giorni della madre dell’autore. L’autore e il fratello minore chiudono allora i ponti con Chicago, la loro città natale, e si trasferiscono in California.

E poi non succede più niente, perché per centinaia e centinaia di pagine è solo il continuo vaniloquio del protagonista che schiaccia gli altri personaggi, li riduce a macchiette quando non a semplici spalle del “formidabile genio”, uno che ci ammorba con discorsi insulsi che non conclude mai e con una scrittura che dovrebbe far ridere tutte le volte che ripete il turpiloquio in maniera ossessiva ma che già la terza volta stanca. Ho fatto una fatica indicibile a terminare questo romanzo, ma ci tenevo a farlo perché prima di stroncare un’opera bisogna essere sicuri che davvero non ci sia, su 369 pagine, almeno una frase degna di nota. E non c’è, ve lo assicuro. A parte il titolo, che è veramente bello, e che riesce a battere persino “La solitudine dei numeri primi” per contrasto tra un titolo promettente e una storia fiacca e deludente.