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Per diventare Eduardo, di Giuliano Pavone

Se questo romanzo fosse un’opera teatrale, sarebbe probabilmente diviso in tre atti. Il primo, ambientato  Roma, vede un giovane liceale pugliese che sogna di diventare giornalista alle prese con la sua prima intervista. E che intervista: grazie a una borsa di studio trascorrerà alcuni giorni nella capitale per incontrare il grande Eduardo de Filippo. Nel secondo atto la scena si trasferisce a Milano, dove Franco, questo il nome del protagonista, è alla ricerca di una sua identità professionale e sentimentale dopo la maturità classica. Il terzo atto ci conduce alla conclusione riportando in primo piano Taranto, la città natale di Franco, vista stavolta con gli occhi disincantati dell’uomo maturo.

Tre romanzi in uno, verrebbe quasi da dire, se non fosse che in realtà la struttura equilibrata del racconto smentisce questa affermazione superficiale: non capiremmo a pieno le scelte del Franco adulto se non ne avessimo conosciuto la personalità di adolescente, illuminata con i suoi chiaroscuri dall’energia di Eduardo.

Qui permettetemi una digressione personale, visto che questo è un blog e non una rivista culturale, posso concedermela. Ho parecchio in comune con il giovane Franco: anche se una decina di anni dopo, anch’io come il protagonista sono stato un liceale affascinato e un po’ respinto dall’aria di città. Addirittura, per anni ho preso lo stesso autobus per andare nella mia scuola a Taranto: il mitico numero 4, che all’epoca conduceva fino in centro, mentre adesso si ferma prima. Io lo prendevo a Statte, Franco nel romanzo lo prende più avanti, nel quartiere Tamburi. Però ho fatto il liceo scientifico, non ho mai intervistato Eduardo e sono riuscito a coronare il mio sogno di diventare giornalista.

Chiusa questa divagazione, torniamo al romanzo, che come avrete intuito può essere definito un romanzo di formazione; ma non solo, perché mi piace considerarlo anche un romanzo storico. Sì perché il romanzo storico non è solo quello ambientato nelle corti rinascimentali o sugli ottocenteschi campi di battaglia, ma può anche essere quello che tratteggia sapientemente un’epoca a noi più vicina, come gli anni Ottanta in cui si sviluppano le prime due parti della storia.

Ci sono tanti temi miscelati con sapienza che qui non voglio anticipare troppo, mi limito ad accennare la voglia di emancipazione di un giovane cresciuto in periferia, la scoperta della propria identità, il rapporto difficile con una città che avvelena i suoi figli.

Una scena rimarrà impressa – secondo me – nella memoria dei lettori più sensibili, è nelle ultime pagine: l’incontro con il vecchio operaio che accetta tutto, ma non gli ospedali pieni di bambini. I bambini dovrebbero giocare e studiare, non curarsi a causa dell’avidità degli adulti. Mi fermo qui, leggete il libro per il resto. A proposito di affinità, Franco è figlio di un operaio dell’Italsider che parte per Milano per garantire un futuro più sereno alla madre e alla sorella minore: la stessa identica vicenda del “mio” maresciallo Antonio Luccarelli, come sanno i miei ventiquattro lettori. Il che vuol dire o che gli scrittori tarantini non troppa hanno fantasia, oppure che queste storie sono avvenute davvero e meritano di essere raccontate.

Tornando ad Eduardo, lo scritto di Giuliano Pavone piacerà sicuramente a chi ha amato l’opera del grande autore napoletano. C’è anche attenzione e rispetto: dalle parole dello scrittore infatti emerge non solo la passione per Eduardo, ma anche la cura (giornalistica, se permettete) nel disegnare una figura quanto più realistica possibile, attribuendogli parole ed espressioni che furono davvero del grande maestro.

Se già apprezzate Eduardo, amerete questo romanzo. Se non lo conoscete, è arrivato il momento di porvi rimedio.

Trappola d’ardesia, di Roberta De Tomi

Trappola d’ardesia, quinto romanzo (credo ma non vorrei sbagliare) di Roberta De Tomi, è prima di tutto una intensa storia d’amore. Ma non fraintendetemi, se state pensando a quelle vicende in cui una occhialuta segretaria timida si innamora del muscoloso fattorino, che alla fine della storia si rivela essere un ricchissimo archeologo e la porta con sé in giro per il mondo, siete fuori strada. Anzi, forse sarebbe più corretto scrivere che il romanzo è una storia d’amori, amori passionali, amori fugaci, amori di una notte e via, ma anche amori difficili tra fratello e sorella e tra padre e figlia. L’amore come sentimento spesso dissimulato, apparentemente denigrato, disprezzato, eppure fondamentalmente ricercato. La bravura con cui l’autrice modenese delinea i rapporti umani sta proprio nel non detto, nei gesti appena accennati, nei silenzi, negli sguardi che frugano, sostengono, si perdono.

Da un punto di vista prettamente narrativo alla storia non mancano tutti gli elementi del thriller: c’è una ragazza in stato confusionale ai bordi della strada, una anonima commessa di provincia che la accoglie in auto, e da lì una serie di avvenimenti e colpi di scena che coinvolgono il lettore fino a spingerlo a prendere le parti di questo o di quell’altro interprete. Sullo sfondo della bassa emiliana si delineano le figure talvolta approfondite, talvolta appena accennate di coniugi che tradiscono, drogati di lavoro, giornalisti indipendenti, genitori incapaci di essere padri, ispettori e giovani in cerca di emozioni.

Alla fine in questo affresco variopinto non ci sono buoni e cattivi, ma solo persone alla disperata ricerca del loro posto nel mondo. E una scrittrice che vorrebbe tanto essere cattiva ma non ci riesce e alla fine dimostra di credere all’amore – in tutte le sue forme: fraterno, sensuale, profondo – più dei suoi stessi personaggi. 

Piccola nota per i lettori maschi: descrivendo uno dei protagonisti che apre la porta a una ospite, De Tomi scrive:

“Nel presentarsi, ricorda di avere un pessimo aspetto. Barba di quattro giorni, pantaloncini a metà gamba,  una maglietta con una scritta sbiadita al centro, buchi sparsi qua e là. Della serie, come far scappare una  donna”.

Ricordatevene nelle vostre scelte d’abbigliamento, anche se pure su questo punto il romanzo riserva delle sorprese.

Trappola d’ardesia è edito da Delos Crime e si trova in formato digitale su tutti i principali negozi online.

Prima che venga sera: presentazione a Vergato del 25 ottobre 2020

[ngg src=”galleries” ids=”20″ display=”basic_imagebrowser”]La biblioteca di Vergato è uno dei miei luoghi del cuore. Un po’ perché mi piacciono in generale le biblioteche, il silenzio che vi aleggia, il profumo dei libri, la certezza che non vi incontreranno fumatori molesti, hoolingans o cani in calore.

Un po’ perché nella biblioteca di Vergato ho brevemente intervistato due miti come Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli, ho raccontato, come addetto stampa dell’Unione dei comuni dell’Appennino bolognese, a iniziative interessanti come la fiera del lavoro o spettacoli natalizi per bambini. Perché la biblioteca è quello che dovrebbero diventare tutte le biblioteche, non una banale piattaforma di prestito e ritiro libri, ma all’occorrenza un teatro, una sala concerti, addirittura un centro congressi. Insomma, il cuore pulsante della vita culturale di una comunità.

Per questo motivo, quando la bibliotecaria Chiara Lalli e l’assessora Patrizia Gambari mi hanno invitato a presentare qui “Stodadio – L’enigma di Artolè” ho accettato con entusiasmo. Avevo già avuto modo di presentare qui la raccolta di racconti gialli, di cui ero uno degli autori “Misteri e manicaretti nell’Appennino bolognese”, e avevo il ricordo di una sala piena, interessata, partecipe.

Siccome la storia però è sempre più imprevedibile di quanto noi possiamo immaginare, il pomeriggio a Vergato si è rivelata più difficile e proprio per questa più indimenticabile. Il 25 ottobre 2020 infatti ha rappresentato l’ultima giornata di libertà (forse è un’espressione un po’ forte ma la trovo efficace) prima di ripiombare nell’incubo del lock-down, doveroso e necessario, per carità, ma pesante.

Accanto a me c’era Eleonora Preci, una persona che non presenta libri abitualmente, e la cui partecipazione è stata a maggior ragione più preziosa, perché ha accettato con generosità il mio invito. “L’Eleo”, come la chiamavano affettuosamente le mie figlie, nei due anni che abbiamo vissuto a Tolè si è occupata del post scuola, con un successo tale che alle mie figlie dispiaceva non poter essere in classe magari per due linee di febbre proprio per non perdere l’appuntamento con il post pomeridiano. Averla accanto era il minimo per chiudere con bellezza la mia complessa e e meravigliosa esperienza di qualche anno trascorsa come cittadino toletano e lavoratore vergatese.

Alla presentazione, come era inevitabile, ha potuto partecipare un numero limitato di persone, anche per l’esigenze di distanziamento, ma questo l’ha resa ancora più preziosa ai miei occhi, come quando – passatemi il paragone fuori luogo e immodesto – un artista metta in scena un concerto non in uno stadio ma in un club per pochi intimi. Non ho parlato a caso di artista perché la giornata è stata arricchita da una mostra di opere d’arte, tra cui quelle dello straordinario scultore Paolo Gualandi, e dall’esibizione dal vivo di Germano Bonaveri. Germano ha preso spunto dal mio romanzo per intrattenere il pubblico presente con alcune canzoni stupende, appartenenti della tradizione dei cantautori italiani, cui ha accostato alcune canzoni altrettanto belle da lui scritte.

La mostra purtroppo è durata praticamente un solo giorno, e questo la rende per chi l’ha vissuta un’esperienza unica, irripetibile forse.
Se qualcuno mi dovesse chiedere perché perdo tanto del mio tempo libero a scrivere, risponderei che lo faccio con la speranza che quelle energie profuse mi tornino indietro in domeniche pomeriggio splendide, come quella trascorsa a Vergato, ad assaporare la gioia di stare insieme e vivere l’arte.

Ad ogni costo, di Cristina Orlandi

Le storie che racconta in questo romanzo sono brutte, molto brutte. Ma vanno narrate, anzi farlo è quasi un dovere per chi si sente in grado di portare questa responsabilità, perché sono storie vere o comunque verosimili.

Cristina Orlandi infatti ci racconta di donne vittime di violenza, e lo fa sulla base di quello che le hanno confidato alcune donne che sono riuscite a liberarsi dalla violenza assassina dei loro compagni prima che fosse troppo tardi. Grazie anche al meritevole e prezioso lavoro della Casa delle donne per non subire violenza onlus, associazione che in quasi trent’anni a Bologna ha accolto e sostenuto oltre 12 mila donne e i loro figli.

Donne come Serena, proveniente già da un ambiente familiare difficile, fuggita di casa in cerca di un futuro migliore per finire invece tra le braccia di un principe azzurro che si rivelerà il più spietato degli orchi. L’autrice non giudica, non punta il dito, non indulge in particolari raccapriccianti, ma la sua prosa pacata riesce comunque a scuotere e impressionare il lettore.

Perché storie come quella di Elisa, convinta dal suo “ragazzo” a prostituirsi e poi minacciata, sono storie che potrebbero capitare anche a persone a noi vicine. Che capitano, anzi, e frequentemente, come la cronaca quotidiana ci mostra. E l’aspetto più toccante è che queste donne finiscono spesso per sentirsi in colpa, quasi che la violenza che subiscono sia giustificata, sia la conseguenza di un loro cattivo comportamento.

L’immagine più bella però che questo romanzo ci lascia è quello di Serena che affronta l’inverno bolognese con un paio di scarpe estive di tela, perché le sono rimaste solo quelle: il compagno violento l’ha privata di tutto. Ma non della libertà e dell’amore di suo figlio.

Ad ogni costo, di Cristina Orlandi, Edizioni del loggione. Pag. 146, 12 euro.

PS Il titolo in realtà è A ogni costo, senza di eufonica. Quella l’ho aggiunta io (ghigno)

#Stodadio a Statte: qualcuno è persino profeta in patria

Il pubblico a StatteEra il 1992, con tre amici decidemmo di organizzare in Largo Lepanto, la piazzetta davanti alla Chiesa della Madonna del Rosario a Statte, la prima edizione degli “Ambarabaciccicogiochi”. Un po’ “Giochi senza frontiere” un po’ “Scommettiamo che”, si trattava di giochi a squadre per passare un po’ di tempo insieme con gli amici della parrocchia, che finirono per appassionare famiglie, amici e parenti al punto che la piazza era gremita ogni sera.
In quella stessa piazza nel 2006 alcuni chicchi di riso mi si sono infilati infidi nell’acconciatura superlaccata perché almeno il giorno in cui ti sposi un po’ di lacca ci vuole. Ed eccomi di nuovo in quella piazza, quasi trent’anni dopo quei giochi e 14 dopo l’estate mondiale, a presentare il mio romanzo. Non ho particolari problemi a parlare in pubblico, semmai il difficile è farmi stare zitto, ma un brivido di emozione la sera del 12 agosto l’ho provata eccome. Quella rimarrà per sempre la mia piazza, e grazie a Debora Artuso, assessora alla cultura del Comune di Statte (chi parla male della politica non conosce le assessore alla cultura, che tengono in piedi questo paese, altro che) sono tornato a esserne protagonista. Non per contare chi avesse portato più spazzoloni per il bagno (era una delle prove del 1992, ancora me la ricordo…) ma per presentare il mio romanzo. Accanto a me il sindaco Franco Andrioli e Silvia Manigrasso. Riguardo a Silvia, è stata un’altra bella sorpresa: una grottagliese che ha vissuto due anni a Vergato? Ma vi pare possibile? Se qualcuno mi chiedesse chi me la fa fare a perdere ore ed energie per scrivere romanzi che tanto non lasceranno alcun segno, ecco io potrei dire che incontrare belle persone è una motivazione più che valida. Anche Silvia mi ha onorato di una presentazione accurata e dettagliata, con particolare attenzione alle mie scelte linguistiche (Silvia insegna lingue, non è un caso). Grazie a Debora anche per aver permesso questo incontro.
Dopo di che, la presentazione non avrebbe avuto la stessa efficacia senza il supporto di chi, come Agnese Giandomenico, infaticabile bibliotecaria di Statte, e Dino Spadaro, attore di teatro, ha la capacità di trasformare la parola scritta in emozione, grazie alla voce.

E grazie ovviamente alle persone che hanno riempito quella piazza, in pieno rispetto delle normative Covid (mi farò dare l’elenco dei presenti dalla polizia municipale per controllare chi non ha comprato il libro, pensavate di farla franca?).

Un’altra giornata memorabile in questo 2020 fatto di alti e bassi.

PS Non ci fu mai una seconda edizione degli “Ambarabaciccicogiochi”, ma fra una ventina d’anni potrei organizzarla per il Centro per gli anziani, se la pensione calcolata con il metodo contributivo mi permetterà di vivere senza rubare le scatolette con il tonno nei supermercati.

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#Stodadio a Tolé: non potevamo partire meglio

Non l’avevo immaginata così, la prima presentazione di “#Stodadio – L’enigma di Artolè”. Avevo fantasticato su un evento collaterale alla festa di Artolè, magari un giorno prima. Mi ero visto su una bancarella nel vicolo dei gatti con i miei libri, tra il via vai dei turisti e qualche bambino curioso che mi chiedeva cosa ci facessi lì.

Ma il Covid-19 ha cambiato, in alcuni casi stravolto le nostre vite, per cui non lamentiamoci. Io non lo faccio senz’altro, quando abbiamo ultimato il romanzo,

Il sindaco Giuseppe Argentieri con Carmine Caputo

 scegliendo copertina e impaginazione, in pieno lock-down, io e il mio editore non sapevamo nemmeno se saremmo riusciti a organizzare delle presentazioni. Di quelle vere, con il pubblico che ride, fa domande, si addormenta a volte, con i libri autografati, le foto, tutte quelle esperienze che ci fanno sentire vivi e che le videoconferenze non possono restituirci.

E però è andata benissimo, forse addirittura meglio, perché la mia presentazione in fondo è stata una Artolè in miniatura: c’era qualcuno in maschera (compreso il sottoscritto, ma chi mi conosce bene sa che quando si tratta di dare un po’ di spettacolo non mi tiro mai indietro), c’erano i borlenghi, c’era l’arte. Come se non bastasse è stata allestita proprio per il mio primo giorno di ferie, e i lavoratori di tutto il mondo sanno che il primo giorno di ferie è un giorno bello a prescindere. L’associazione Fontechiara, presieduta da Tina Zaccanti, che ha organizzato l’evento, l’ha ribatezzato “Delitti e borlenghi”, titolo azzeccatissimo che potrei persino riciclare per una futura saga toletana.

Dopo la bellissima introduzione a cura di Flavia Malpezzi, che – tanto per restare in tema- ha ritratto il romanzo con un paio di pennellate che ne hanno messo a nudo l’essenza senza svelare troppo, ho chiacchierato con il sindaco Giuseppe Argentieri e l’assessora alla cultura Patrizia Gambari prima del colpo di scena finale. Il disvelamento di un quadro della pittrice Rosa Stassi dedicato al romanzo assolutamente perfetto nel suo dire e non dire.

Chi l’avrebbe mai detto che ci sarebbe stato un quadro ispirato da un mio romanzo? Ma roba da matti.
A completare il tripudio per il mio ego anabolizzato, una bimba di una decina d’anni ha chiesto a suo nonno di potersi fare una foto con me, dopo che gli ho autografato il libro. Ma non è stato quello il punto. A quell’età anche uno scrittore scalcagnato che però riesce a radunare mezzo paese, può sembrare una celebrità con cui farsi una foto. Il punto è stato che nel libro che mi ha allungato, un po’ stropicciato, ho individuato il segnalibro. Era a oltre metà. Ho improvvisamente sentito sulle mie spalle tutta la responsabilità della scrittura. Quella bimba ha letto oltre metà del mio libro, a questo punto spero l’abbia finito: e se le sarà piaciuto, ne leggerà un altro, e poi un altro ancora. Ma se invece l’avrà trovato noioso, l’avrà magari dimenticato tra i giornalini di enigmistica incompleti e i quaderni di seconda elementare da riciclare (da generazioni i bambini comprano più quaderni di seconda elementare di quanti ne servano, e poi ci mettono anni a riciclarli tutti). Capite, che responsabilità, la scrittura?
Speriamo non di aver deluso una giovane lettrice. Non potrei mai perdonarmelo.

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