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E companatico senza pane… la mia esperienza con Fico

Gli orti di Fico
Gli orti di Fico. Insomma, ne ho visti di migliori.

Ho finalmente visitato Fico, la Fabbrica Italiana Contadina di EatItaly, di cui ho preferito non parlare prima perché sono convinto che prima di criticare qualcosa bisogna vederla e provarla. E devo dire che l’esperienza non è stata negativa, a patto di chiarire alcuni aspetti.
La comunicazione da me percepita da parte di di Fico, in questi primi mesi di vita, si è focalizzata sull’idea della promozione del cibo genuino, della filiera italiana dell’alimentare, della conoscenza eno-gastronomica. Si parlava di un posto adatto agli studenti e alle scolaresche, di un’esperienza per riscoprire il nostro rapporto con la tavola, e in questa logica si era arrivati a parlare di Disneyland del cibo.

Ebbene, questa comunicazione secondo me è fuorviante, tronfia, presuntuosa e in ultima istanza inefficace. Se davvero vi aspettate una Disneyland, e cioè intrattenimento, gioco, cultura (pop, certo, ma pur sempre cultura), non troverete nulla di tutto questo. O molto poco. Fico è uno centro commerciale. Un bellissimo, innovativo, per certi versi straordinario centro commerciale. Non sono certo Gardaland ma neanche le città d’arte o le fiere specializzate i concorrenti di Fico, ma semmai l’Ikea. Avete presente quelle domeniche pomeriggio uggiose in cui la vostra compagna o un amico – che spero allontaniate presto perché le amicizie vanno selezionate – vi convince a fare un giro all’Ikea, e mangiare salmone surgelato, e fare un giro tra prodotti di cui non avete bisogno, in un mondo luccicante e finto dove abbiamo deciso di sprecare il nostro tempo? Ebbene, è quello il tipo di esperienza che vi offre Fico, ed il vantaggio non è da poco, perché è meglio portarsi a casa una bottiglia di birra artigianale che un set di posate di plastica dai colori allucinanti.

Ristoranti vuoti
Ore 12,50 di sabato. Diciamo che nei ristoranti migliori c’è posto anche senza prenotare

Se solo oggi non ci fosse questa ossessione del politically correct per cui si allestisce un enorme centro commerciale proprio mentre in tanti chiudono, e anziché dire onestamente che l’obiettivo è vendere prodotti alimentari costosi (e di qualità), si parla di “riscoperta del rapporto con la terra”, probabilmente Fico sarebbe più simpatico. Ma davvero secondo i gestori bastano quattro vacche, due pecorelle e un orticello a ridarci la meraviglia della civiltà contadina? Grazie al cielo non siamo ancora in una realtà virtuale alla Black Mirror, di orti veri ce ne sono anche in città, e la provincia è piena di fattorie didattiche dove davvero fare esperienza della vita in campagna. Poi per carità, io non ci trovo niente di male in questa mini fattoria, ai bimbi piace, l’importante è che gli animali siano trattati bene, e magari togliamo quell’orrenda vetrinetta piena di astici “freschi” pronti a essere serviti. Non griderò liberate le aragoste, ma è così che nascono i vegani, cavolo, stiamo attenti ai dettagli.

Ma insomma, cos’è Fico? Un enorme galleria commerciale piena di ristoranti, punti di ristoro, negozi alimentari specializzati, qualche area all’aperto “contadina” (gli orti e le stalle di cui sopra) e sei punti, pomposamente chiamati giostre, dove fare esperienze multimediali. Esperienze che forse sono l’aspetto migliore dell’iniziativa: è stato più appagato il mio lato nerd, nell’apprezzare un video a 360° sulla scoperta del fuoco, molto suggestivo, che non quello ambientalista, che si domanda come si può parlare di riscoperta della terra in un posto in cui gli alberi sono di plexigass e hanno luci led al posto delle foglie. Questi punti sono gli unici aspetti “formativi” di Fico, e devo dire che sono interessanti: ricordano molto l’esperienza di Expo, per capirci, che deve essere rimasta ben impressa a chi ha progettato Fico. Schermi multimediali interattivi, videoproiettori, luci ben calibrate, però la forma in questo caso è più della sostanza, per cui sono sicuro che le mie figlie si ricorderanno di più del gioco in cui con un timone piloti una nave, che non della spiegazione sulla pesca nel Mediterraneo che avrebbe dovuto agevolare. Queste giostre originariamente dovevano prevedere un biglietto di ingresso anche costosetto (circa due euro l’una a persona), ma si è capito che non era il caso, e adesso tra sconti e agevolazioni una famiglia se le vede tutte con una quindicina di euro.

Giostre di Fico
Gli spazi multimediali sono curati e suggestivi. Ma visti una volta…

Ci sono anche delle belle sale “cinema”, alta definizione, audio surround, quasi sempre vuote, e il motivo è semplice, i video talvolta sono terribili. Mi dispiace per Maurizio Nichetti, regista che stimo e che li ha curati, ma proprio questi video mi sono sembrati cavoli a merenda. Sono realizzati da studenti di cinematografia, Fico ci fa notare in più circostanze che probabilmente non sono costati niente, quasi a mettere le mani avanti, e dei video degli studenti hanno tutti i difetti: ossessiva ricerca della scena madre, sfocature volute, primissimi piani e fotografia da spot, inquadrature sghembe, rallenty, animazioni al livello dei cartoni animati sovietici degli anni ottanta. Quello che ti aspetti da uno studente, ma che un professionista non farebbe. Mi spiegate cosa dovrei trovare di appagante in un rallenty di un fagiolo che si rotola su se stesso, scivola, incontra una goccia d’acqua, cade a precipizio e finalmente finisce e atterra in un’insalata? Mandateci piuttosto una puntata di Linea Verde, è più interessante, e poi parla di cibo. Per non parlare del video in cui due ballerini seminudi si palpano, si accarezzano, si cercano, e il tutto dovrebbe aiutarci a capire il nostro rapporto con il fuoco. Che poi per me il balletto moderno sempre quello ha rappresentato, il vorrei ma non posso di un fisicato che guarda la sua donna, sospira, la sfiora, le sussurra “ti darei volentieri due colpi come dico io ma sai com’è, questa calzamaglia contenitiva ha degli effetti collaterali…”. Ma non divaghiamo, sono io uno zotico che non comprende il balletto, ma davvero, mi aspettavo qualche breve documentario sulla produzione del vino, la coltivazione del riso, cose adatte ad un sempliciotto come me. Davvero, Signor Fico, ripensa a questi schermi, alla peggio collegali su Rai Yoyo che almeno i bambini si divertono un po’.

Astici in vendita
Liberate gli astici!

Evviva la tecnologia, allora, diciamolo con orgoglio, altro che terra. Quella c’è e va riscoperta, ma in campagna, tra i vitigni della Valsamoggia e gli allevamenti della bassa, con gli apicoltori dell’Appennino e i frutteti imolesi, mica qua. Anche perché la tecnologia ha reso migliore la nostra vita e il modo in cui mangiamo, non c’è da vergognarsi: vogliamo dirlo una volta per tutte che questa nostalgia del cibo di una volta è in larga parte una grande ca**ata? Vogliamo dirlo che l’olio “naturale” che i nostri nonni preparavano nei frantoi aperti era fatto di olive e traccie di sudore, feci, peli di animali, unghie, foglie e chissà cos’altro, altro che i container sigillati a tenuta stagna e privi di qualunque contaminazione di oggi?
Vogliamo dirlo che un conto è temere comprensibilmente le manipolazioni OGM, un conto è negare che gli innesti hanno migliorato il sapore di quasi tutto quello che mangiamo?
Tanto è vero che nell’unica giostra veramente innovativa e coraggiosa, si dimostra che in futuro non useremo più la terra per coltivare, e qui non dico oltre perché sarebbe un po’ spoiler e non voglio rovinarvi la sorpresa (per me lo è stato).

12 euro puccia pugliese, rustico e birra artigianale. In un ristorante difficilmente ci paghi il primo

Insomma, tutto bene? No. Bene l’organizzazione, bene i parcheggi (e non era scontato: a pochi centinaia di metri da qui c’è il parcheggio del centro commmerciale Meraville, progettato evidentemente da una squadra di alcolizzati sadici, con deliri di onnipotenza e nessuna conoscenza della geometria). Bene gli ambienti, perché l’uso del legno per le coperture e una sagace gestione delle luci e degli arredi rende il posto piacevole, accogliente, ben lontano da quel “capannone industriale” che hanno citato alcuni critici. Magari manca il punto con una personalità da “selfie”, l’albero della vita insomma, chissà che non ci pensino. Bene anche le giostre e persino i mediocri spazi “naturali” per orti e animali. Ma sono le proporzioni, che non tornano. In un parco dei divertimenti o in una fiera c’è l’intrattenimento, mettiamo per l’80%, e poi un 20% di ristoro e commercio. Mettiamo anche 70 e 30. Qui le cifre si capovolgono: ecco perché dico che può essere un esperimento vincente solo se lo chiamiamo per quello che è, la più grande galleria commerciale d’Italia. Per carità, da non paragonare a Ipercoop o simili, il paragone semmai è con i centri presenti all’estero tipo la Corte Ingles o Macy’s, solo focalizzato sull’alimentare. Oltre tutto l’offerta andrebbe riequilibrata, perché ci sono troppi posti che vendono prodotti che trovi anche altrove, e li paghi meno, e una sola gelateria (Carpegiani), dove occorre fare almeno mezz’ora di attesa per un gelato, con una scelta di gusti che definire essenziale è un eufemismo.

Qualcuno che mangia in effetti c’è.

Può essere interessante per un turista? Non lo so. Se ha molto tempo, forse. Ma perché passare una giornata qui dentro con tutto il ben di Dio da vedere che c’è la fuori? Non siamo mica a Dubai. Fossimo vicini all’aeroporto, probabilmente sarebbe un’idea vincente, in attesa magari di una coincidenza, o prima del volo di ritorno, mi fermo qui e faccio un po’ di shopping. L’aeroporto però è lontano.

Un altro angolo suggestivo dedicato a olio, vino e birra

In effetti ho visitato Fico oggi, sabato 31 marzo, vigilia di Pasqua, in teoria giorno di grande afflusso, ma non c’è stato, proprio per niente. Neanche vuoto, per carità, ma se queste sono le cifre di un sabato, mi domando come si farà a mantenere aperto questo baraccone nei giorni feriali. Ancora, i prezzi dei ristoranti sono medio alti, dai 40 euro a persona a molto, molto di più. Con il risultato che, almeno oggi, la stragrande maggioranza erano tristemente vuoti, mentre la gente faceva la fila nei punti ristoro più a buon prezzo (take away, finger food, insomma quelle bancarelle a cui abbiamo imparato a dare un nome inglese perché è più cool, anzi, fico). Io non sono un pauperista che si scaglia contro i prezzi alti, perché la qualità si paga, ma se voglio mangiare da Amerigo (per fare un nome), mangio volentieri nella sua trattoria di Savigno, non in questa galleria.

Insomma, bisogna che qualcosa si inventino, se vogliono che il gioco funzioni. So che c’è una sala congressi, bene, perché non usarla anche per qualche spettacolo dal vivo? Ceno e poi mi ascolto un bel concerto, o magari uno spettacolo teatrale. C’è anche un piccolo spazio “teatro” dove oggi una signora non più giovanissima faceva aerobica tipo Jane Fonda, ma insomma, si può fare di meglio, no? Possibile che tanti anni di Motor Show non abbiano insegnato niente? Va bene mangiare, ma non solo mangiare, dai. Presentazioni di libri, “firmacopie”, stand per stazioni radio o tv, qualche esibizione sportiva. E poi gonfiabili, dove sono i gonfiabili? Chi mai può predisporre oggi un business plan di un’attrazione turistica senza gonfiabili? E qualche giostra “vera”? Ho visto un campetto da minigolf, ma torno a ripetermi, si può fare molto meglio.

Il companatico c’è, è saporito, ma serve il pane.
Perché persino noi pugliesi durante i matrimoni di otto nove ore ad un certo punto ci alziamo e cominciamo a ballare.

Top ten delle paure da vincere per l’anno che viene

Propositi per l’anno che arriva: vincere alcune ancestrali paure che mi perseguitano da sempre. Ne ho messe solo dieci, ma ce ne sono altre due o tre che potrebbe aggiungersi…

10. Di sbagliare ingresso al multisala e guardare un film di Silvio Muccino
9. Di dimenticare il pin del bancomat dopo aver fatto lo spesone mensile
8. Di scoprire che il pin lo ricordo, ma in compenso la carta si è smagnetizzata
7. Di andare in ferie portandomi dietro le chiavi dell’ufficio, per la gioia dei colleghi
6. Di fare rifornimento con il diesel anziché con la benzina
5. Di dimenticare tutte le password, comprese quelle dei documenti in cui salvo le password
4. Di chiedere ad un farmacista del centro commerciale dove sono i dentifrici per bambini
3. Di buttare via le chiavi insieme alla spazzatura
2. Di essere scoperto in ufficio mentre riguardo il video di “Boys, boys, boys” di Sabrina Salerno
1. Di scrivere in un post qualcosa che avrei dovuto tenere per me, come nel punto precedente

Benvenuti a Pugliawood

Foto tratta da http://www.tuttosporttaranto.com/

La definizione azzeccata l’ha data il mensile Ciak, parlando appunto di Pugliawood in riferimento al fatto che la regione da alcuni anni è cornice di numerosi film italiani e stranieri che hanno riscoperto un territorio colpevolmente trascurato dal mondo dello spettacolo. E attenzione, non si parla soltanto di film intrinsecamente “pugliesi”, come per esempio quelli di Sergio Rubini o Eduardo WInspeare, o di commedie che ricalcano alcuni cliché resi popolari negli anni settanta da Lino Banfi (si pensi a Checco Zalone o al recente e sottovalutato “Non me lo dire” di Uccio De Santis). La Puglia diventa set cinematografico anche per pellicole la cui storia con la Puglia non c’entra niente, come nel caso de “La vita facile” con Favino, Accorsi e Vittoria Puccini. L’ambientazione è africana, ma se guardandolo avete subito il fascino del continente nero, sappiate che è girato in Salento.
Come si spiega tutto ciò, negli stessi anni in cui si parla di smantellare Cinecittà? Semplice. La politica ogni tanto fa qualcosa di giusto. E la politica in Puglia ha dapprima istituito, per legge (6/2004) una Film Commission, cioè una struttura che si occupa di promuovere il territorio agevolando chi voglia girarci dei film. Attenzione, la legge fu approvata sotto la presidenza Fitto, anche se poi è stato Vendola a credere in questo progetto e attuarlo. A dimostrazione che le buone idee non sono necessariamente di una parte politica. La film commission costa, per carità, perché oltre a fornire supporto logistico e consulenza, la legge garantisce degli sconti fiscali e altre agevolazioni: si parla di più di un milione di finanziamenti dal 2007, ma se fosse possibile calcolare esattamente il ritorno economico per il turismo, il lavoro (perché le troupe hanno bisogno di sostegno di operatori locali) si scoprirebbe senz’altro che sono soldi ben spesi. Anche perché per ricevere i finanziamenti bisogna dimostrare di aver speso sul territorio dal 150 al 300% di quanto ricevuto.
Ebbene, anche la mia amata e sfortunata Taranto è finalmente coinvolta da questo progetto (va bene lu sole lu mare e lu viento, ma vi assicuro che la Puglia è bella non solo a Lecce). E si tratta sul serio di Hollywood. Il film si chiama “Third person” , è una produzione internazionale diretta dal premio Oscar Paul Haggis e alcune scene sono girate nella città vecchia di Taranto e addirittura – pare – nella mia Statte. Tra i protagonisti, Liam Neeson e Adrien Brody.

Ci sono tanti modi per investire in comunicazione. Si possono finanziare gli artisti che hanno qualcosa da raccontare. Oppure si può organizzare un’agenzia che riprende giorno e notte il presidente della Provincia di Firenze, che racconta quello che pensa il presidente della Provincia di Firenze, che fa vedere quanto è figo il presidente della Provincia di Firenze. Nessun riferimento a fatti, persone o primarie, per carità, anche perché nel frattempo quel presidente è diventato sindaco di Firenze e pare che il suo prossimo obiettivo sia trasformare l’agenzia in un ministero che riprende giorno e notte il presidente del consiglio, che racconta quello che pensa il presidente del consiglio, che fa vedere quanto è figo il presidente del consiglio.

Ops, le liste…

Credo che alla fine si risolverà tutto
Satira su Milioni
Però ammettiamolo, la commedia all’italiana al cinema non ci riesce più, ma in quale altro paese può essere eliminata una lista (che verrà recuperata, figurarsi…) perché un funzionario va a farsi un panino e non consegna in tempo le pratiche necessarie?
PS Complimenti all’autore di questa vignetta che ho visto su Repubblica, per fortuna la satira non va mai in crisi…

Minigonnari e spacchisti

Gli uomini essenzialmente si possono dividere in due categorie: i minigonnari e gli spacchisti. I minigonnari sono coloro che non sanno nascondere il loro compiacimento di fronte ad una donna che indossi una mini. Non importa che le gambe siano affusolate, snelle, dritte, depilate. Per i minigonnari si tratta di elementi accessori: quello che conta è la dimensione di pelle scoperta. I minigonnari sono concreti, realisti, un po’ infantili, hanno bisogno di emozioni forti, hamburger e patatine fritte, film hollywoodiani e fumetti, macchine sportive e birra.
Gli spacchisti, invece, sono gli uomini che vanno in visibilio di fronte alle donne che indossano una gonna con lo spacco. Non importa la dimensione dello spacco, quello che conta per lo spacchista non è il poco che osserva, ma il tanto che immagina. Lo spacchista vive di immaginazione, di sogno, intravvede turbini di piacere indescrivibile dove ci sono pochi centimetri di collant. Lo spacchista ama la letteratura e i tramonti, il vino e la pasta, il cinema europeo e la bicicletta, non vuole emozioni, vuole evocazioni. Siamo fatti così.

PS Per le donne: spacchisti o minigonnari, se volete far colpo su un uomo, dimenticatevi i pantaloni. Sono dei dissuasori mobili per lo sguardo. Forse un giorno l’involuzione porterà ad una sottospecie di jeansari, trogloditi con la coda e i peli sulla fronte. Nel frattempo, compratevi una gonna.