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Ode all’orinatoio

Sei stato il compagno di tante soste all’autogrill. Grazie a te abbiamo guadagnato minuti di vita preziosa dedicata a passeggiare nei piazzali in attesa che le nostre compagne facessero la loro fila. Grazie a te abbiamo risparmiato infezioni e contatti poco piacevoli: eri lì, pronto al tuo insostituibile servizio, senza chiederci altro che non dico di far centro, ma almeno fare dentro. Ultimamente ti eri addirittura attrezzato con sistemi di risciacquo automatico.

E che dire delle battute con gli amici, alcune delle quali invero irripetibili, che si susseguivano intorno a questo totem contemporaneo?

L’uomo non ha alcuna superiorità nei confronti della donna, anzi, gli è inferiore in tanti ambiti. L’unico vantaggio che madre Natura ha voluto conferirci è di natura idraulica. Ci ha concesso dieci minuti di fila in meno di fronte ai bagni pubblici, tempo che abbiamo negli anni imparato a dedicare alle chat per il calcetto o alle quotazioni delle auto usate.

Tutto questo però appartiene al passato. Un destino ingrato ti ha trasformato nel simbolo di un patriarcato da spazzare via.

Toilette unisex

Ho infatti di recente visitato un bagno dove non c’è differenza di genere, semplicemente perché non c’è l’orinatoio. Uomini e donne possono entrare indistintamente. Mi si dirà: è per non discriminare i trans. Ma quando mai un uomo ha discriminato un trans? Sono ben accetti nei bagni degli uomini. Semmai sono le donne, che non li vogliono nei loro.

Vorreste farmi credere che vi irritava che entrasse nel vostro bagno Gabriela da Fortalezza, ma non è un problema fare spazio a Mimmo il turbo camionista? E dai. Il rispetto sacrosanto nei confronti delle persone con fluidità di genere non c’entra.

La verità è che quella fila lunga vi dava fastidio, la nostra velocità nell’espletare era un retaggio maschilista da estirpare. Per questo avete voluto i bagni unisex. Per fare prima.
Allora abbiate il coraggio di andare fino in fondo. Bagni alla turca per tutti.

Anche perché io, fossi in voi, non mi fiderei di sedermi su una tavoletta usata da Mimmo il camionista incavolato perché gli avete fatto perdere dieci minuti di Fantacalcio.

Non c’è più la prova costume

Di sicuro per noi il problema non è grave come per quegli agricoltori che dopo aver visto fiorire i primi alberi se li vedono congelare sotto la neve. Non è neanche una beffa come per gli operatori delle stazioni sciistiche che dopo una stagione di prati verdi, vedono le loro piste imbiancarsi ora che a sciare non ci pensa più nessuno. Per quanto gli operatori sciistici è da un po’ che dovrebbero studiarsi piani alternativi.

Però quando ripenso alle formiche che ho visto nei giorni scorsi cominciare ad accaparrarsi le briciole e che adesso si staranno domandando chi è che ha puntato male la sveglia, non posso non considerare quanta nostalgia ho delle quattro stagioni. Di quegli anni in cui lavavi e stiravi i maglioni, li salutavi, ci spruzzavi l’antitarme e non li rivedevi più per mesi. Anni in cui mettevi gli scarponi nella scatola e li riponevi nell’armadio o nella scarpiera nella posizione più scomoda, tanto a chi vuoi che servano.

Anni in cui c’era il periodo in cui aveva senso fare la prova costume. Chi la fa più la prova costume? A parte il fatto che puoi trovarti coinvolto in una imbarazzante uscita imprevista alle terme magari a marzo, periodo di massima espansione assoluta del panciotto, che con la scusa che fa freddo hai imbottito prima di fritti misti e poi della cioccolata di Pasqua. Il guaio è che per fare la prova costume devi averla, un’idea di massima, su quando lo indosserai. Ho visto amici che abitano al sud pubblicare nelle settimane scorse i loro indimenticabili piedi ammollo che adesso sono tornati a farsi avvolgere da sciarpe rassicuranti.

Maledetto cambiamento climatico, quando dobbiamo metterci a dieta? Quando devono tornare in palestra le signore di mezza età con le cosciotte piene di buoni propositi mandati all’aria? Quando devono prepararsi a tingersi i capelli o a ritoccarsi le sopracciglia i maschioni che ormai all’idea di smaltire la pancia hanno rinunciato?

Bisogna vivere alla giornata, dicono. Carpe diem. Polo a mezze maniche in un cassetto, maglione di lana nell’altro. Infradito o stivale a seconda di come gira il tempo. Vestirsi a cipolla come scelta di vita. E in fondo, magari, il costume.
Hai visto mai che ci scappa un giro alle terme.

Un futuro monacale

Amici tranne...

Nella palestra che frequento c’è un ragazzo giovane il cui compito è tenerla aperta negli orari più scomodi, per esempio a tarda sera o durante il fine settimana.

È un ragazzo educato, io personalmente mi limito a salutare perché ho sempre poco tempo, grugnisco qualcosa e lo libero dai suoi doveri di ospitalità. Tanto lo so che lui preferisce chiacchierare con le ragazze, non gli faccio perdere minuti preziosi.

Oggi l’ho visto impegnato con una ragazza giovanissima, la conversazione sembrava più accesa del solito, io come di consueto ho pensato ai fatti miei.

Più tardi però l’ho visto stordito, messo all’angolo, difendere le sue orecchie sanguinanti con argomenti terra terra da neoliberista fascista all’acqua di rose, argomenti da ragazzo che tiene aperta la palestra, insomma.

Lei invece gli puntava contro il dito sollecitando la necessità impellente di riaprire un dibattito profondo e scevro da sociologismi artefatti che rifletta in maniera franca sulla condizione femminile subalterna nel contesto contemporaneo.

L’ho lasciato lì, grugnendo divertito.

Che tu e il tuo personaggio siate maledetti, Valerio Mastandrea.
Già era difficile rimorchiare prima. Ma adesso.

Per i giovani d’oggi la prospettiva di una vita monacale si fa sempre più concreta.

Le cassiere della Coop

Fino a qualche tempo fa, ero un cliente affezionato della Coop, in particolare dei prodotti a marchio Coop. Un mio amico che venne a trovarmi mi disse che a casa mia solo i televisori non avevano il classico ogo rosso. Da qualche tempo non è più così, nel senso che i prezzi sono aumentati e gli stipendi no, con la logica conseguenza che anche per fare la spesa ho dovuto cercare punti vendita meno cari.

Però c’è qualcosa che mi manca, della Coop, e sono le signore della cassa. Hanno fatto di tutto per ridurne il numero. Prima il machiavellico Salvatempo, la pistolina a salve che se non puntata alla perfezione può farti spendere cifre imprevedibili:  eri convinto di aver introdotto il codice del sugo al pomodoro e invece hai beccato lo schermo 43 pollici più dietro. E quando ti tocca il controllo, figlio mio, sono guai. Non perché tu abbia rubato, ma perché saranno loro a rubarti almeno una mezz’oretta.

Poi, come se non bastasse,  è arrivata la cassa fai dai te, quel circuito infernale in cui se vuoi usare i buoni pasto devi chiamare l’addetto, se appoggi male il pane devi chiamare l’addetto, se non vuoi sacchetti (ma perché non vuoi i sacchetti? Se sicuro? Facile sia necessario l’arrivo dell’addetto). Nei centri commerciali portarsi il sacchetto da casa evidentemente è considerata una operazione tipica dei rapinatori e dei serial killer. Ho un sacchetto portato da casa, fate quel che vi dico  e nessuno si farà male.

Però per fortuna loro sopravvivono ai maldestri tentativi di ottimizzazione aziendale
Con quell’aria di mamma stanca che però sorride comunque quando passa la confezione di biscotti in offerta e sospira chiamando la mitica assistenza quando un codice a barre non passa. Da qualche parte nella Coop c’è un uomo o una donna pagata per conoscere a memoria il prezzo di qualunque prodotto: se la cassiera è in difficoltà, interviene lui. Non so darmi altre spiegazioni, se i prezzi fossero online ci sarebbe bisogno del mitico uomo dell’assistenza so-tutto-io. O magari hanno solo una password per accedere al database e ce l’ha lui.

Ad ogni modo, sinceramente non so se la riconoscibilità delle cassiere della Coop sia dovuta a una particolare selezione del personale, oppure se al contrario è il ruolo che in un certo qual modo ti modella come persona.
Tanto per cambiare, hanno sempre una cinquantina d’anni. Se sono più giovani ne mostrano di più, se sono più anziane ne mostrano meno. La divisa è costituita dalla maglietta rossa e dalle meches. Le cassiere della Coop hanno sempre le meches, o quel tocco di colore chimico che è praticamente obbligatorio se si hanno tra i quaranta e i cinquanta anni e si è donne. Ogni tanto c’è qualche uomo, a dire il vero, ma io evito sempre le file degli uomini. Non reggono lo stress, non gestiscono con flessibilità la gestione dei bollini, vanno in tilt se gli chiedi una ricarica. La cassa non è adatta a personalità semplici come quelle maschili, loro vanno bene alla catena di montaggio, il multitasking che richiede il ruolo di cassiera li mette in crisi.

Le cassiere della Coop invece sopportano, contano i venti euro degli anziani in monete da 10 e 5 centesimi (dove diavolo recuperano tante monetine gli anziani? Mica possono prenderle dalle fontane, con i reumatismi che hanno!). Accettano  che si lasci qualche prodotto se i contanti non bastano, ricordano di passare la carta Coop.

Mi mancano un po’, le cassiere della Coop, anche perché le ragazze del posto dove vado adesso nella metà del tempo non solo passano tutti i prodotti ma pesano pure frutta e verdura. Non perché siano più efficienti, ma perché sono più controllate dai datori di lavoro. E in parte io sono complice di questo meccanismo oppressivo.

Se divento ricco, spendo tutto in viaggi, beneficienza, e torno a fare la spesa alla Coop.

Farsi fighi

Ci sono applicazioni che attraverso appositi filtri ti fanno sembrare vent’anni più giovane, altre che rivitalizzano il colore della tua pelle, altre ancora che ti rendono più sexy.

Una volta bisognava avere un po’ di competenze con Photoshop per rendersi più gradevoli in fotografia, adesso uno smartphone basta e avanza. Però io mi domando: a che pro? Perché va bene crearsi un avatar piacente, ma nella realtà poi quelli siamo e rimaniamo, non so se mi spiego.

Non vi amareggia lo sguardo deluso di chi, dopo aver visto le vostre foto su Instagram, si aspettava di trovarsi di fronte alla sosia di Monica Bellucci e realizza invece che quel fisico in apparenza così seducente sul web appartiene in realtà alla mamma dei Barbapapà? Quanto tempo riuscite a trattenere il respiro per tenere dentro la pancia e gonfiare i pettorali come avete fatto in quella foto da playboy in riva al mare la scorsa estate?

Una ventina di anni fa, mi faceva sorridere quando nei programmi dei convegni vedevo le foto da splendidi trentenni di relatori ormai vicini alla sessantina: ma in fondo un pizzico di vanità ci può stare, e in alcuni casi era solo trascuratezza, perché vent’anni fa non ci facevamo un autoritratto ogni due ore. Si riciclava sempre la stessa foto e pazienza se all’accoglienza la guardia non ti riconosceva.

Questa esplosione dei social sta generando effetti incontrollabili. Mi si dirà: che male c’è ad abbellirsi un po’? Magari si tratta di persone in cerca dell’anima gemella. Ecco, proprio a voi mi rivolgo. Siate onesti. Se a qualcuno piacete in quella foto in cui siete spettinati, sovrappeso e con le rughe da stress, quel qualcuno di persona vi apprezzerà ancora di più. Se non vuole conoscervi, non avete perso niente. Come minimo usa gli effetti per farsi figo anche lui o lei. Giocate sull’effetto: però dai, non l’avrei detto, mica male in fondo, quasi quasi.

Poi, un modo per migliorare c’è sempre. Si chiama sport, vita sana, dieta equilibrata. Eh lo so, con la app si fa prima.

O i punti, o i soldi

Le raccolte punti sono strumenti di promozione semplici. Compri un prodotto, raccogli un punto. Quando ne avrai tanti o tantissimi, per premiare la tua fedeltà, ti farò un regalo, che io sia il produttore di una merce o il gestore di un negozio.

La mia generazione è cresciuta con la tazza del Mulino Bianco, la tovaglia del Mulino Bianco, i piatti del Mulino Bianco, la radio a forma di Mulino Bianco, il Mulino che si apriva e conteneva la cancelleria. Si è capito insomma quali erano i biscotti che andavano per la maggiore negli anni Ottanta. 

Il funzionamento era quasi infantile: compravi merendine, raccoglievi punti, ricevevi un regalo, lo mostravi agli amici per dimostrare di essere degno di inclusione nel loro clan. Purtroppo però i sistemi semplici negli anni tendono a corrompersi.

I punti da ritagliare sono stati sostituiti da strani codici da utilizzare online: i cambio di una quantità impressionante di tuoi dati personali, puoi ricevere un messaggio che ti dice che non hai vinto. Capite che il meccanismo è corrotto, qui siamo alla lotteria, non all’onesta raccolta punti. Oppure, peggio ancora, puoi avere accesso a una app che ti propone giochi talmente scarsi da metterti nostalgia del tuo vecchio Sinclair ZX Spectrum. 

Sul fronte delle catene di grande distribuzione, la tecnologia ha dapprima sostituito forbici e colla alla raccolta con schedine di plastica che tracciano tutti i nostri acquisti e ci restituiscono dei punti. Bene. Almeno si dà fine al dramma di aver smarrito la busta che raccoglieva tutti i ritagli, nascosta nella credenza o nel ripiano alto della libreria.

Poi però qualche genio deve essersi reso conto che in questo modo stava uccidendo un mercato che prosperava da decenni: quello dello scambio di punti. Nonne che compravano prodotti fatali per il loro diabete solo per consegnare i punti al nipotino, si sono viste ignobilmente tagliate fuori da quel mercimonio di affetti. Colleghe che barattavano ferie e turni domenicali in cambio di una manciata di punti, improvvisamente si sono viste private di quella contrattazione sindacale alternativa.

Che fare, allora, si sono detti i cervelloni del marketing? Semplice. Reintroduciamo i punti, con l’unica accortezza di rendere i bollini adesivi, che quando arrivavano quei fogli appiccicaticci in sede centrale venivano accolti con lo stesso entusiasmo riservato all’antrace o ai proiettili in busta. Concediamoli come un bene prezioso: signora, li vuole i bollini? Ci tiene davvero? No perché al direttore non va bene che li prende e poi li passa a quello dietro, eh?

E poi, il capolavoro finale. I bollini servono a ricevere prodotti insulsi, assolutamente inutili per la quotidianità di una famiglia media, come le tazze avvolte dalla gomma disegnate dal designer giapponese, o i bicchieri che se attraversati dalla luce solare generano effetti che neanche tre canne ma di quelle buone. Non solo: rifiliamo queste rimanenze di magazzino ai clienti, e gliele facciamo pure pagare!

Devo dire che poi, nella scelta di questi prodotti, si intravvede un maschilismo un po’ becero visto che sembra che il loro destinatario finale sia sempre e sola la casalinga uscita fuori da un fotoromanzo anni Cinquanta.

Vuoi l’insalatiera in cristallo che non ci sta in frigo né in lavastoviglie e conserverai per sempre imballata sulla vetrinetta del soggiorno? Paga! Vuoi il roast beef set stiloso da depositare in cima al mobile più inaccessibile della cucina e lasciare consegnare in discarica alle future generazioni? Paga! Oltre tutto si chiama “I love cooking” anche se in verità sappiamo bene che in casa tua amate talmente cucinare che il momento più bello della settimana è quando chiamate la pizzeria d’asporto per ordinare. 

A tutto questo diciamo basta. Basta ai bicchieri colorati, alle insalatiere smaltate e ai rost beaf set acquistati con pochi bollini e un mucchio di soldi. Ci sono modi più dignitosi di usare il denaro, per esempio con il gratta e vinci, procurandosi pillole per la ricrescita dei capelli o acquistando criptovalute da usare per comprare file digitali unici perché garantiti da un NFT su una block-chain (se non avete capito nulla dell’ultimo passaggio meglio così, ma non prestate la vostra carta di credito a vostro figlio).

Se sarò costretto fonderò un partito che ha solo due punti in programma: abolizione delle raccolte punti che chiedono soldi, introduzione nella parità di genere nei regali. Basta portafiori, piatti e caraffe, vogliamo in regalo schede sd, fumetti e biglietti per lo stadio. Eccheccacchio.