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Un mondo human free

È un bene che finalmente il mondo occidentale si sia reso conto, forse tardi, dell’insostenibilità ambientale del nostro stile di vita. Ripensare consumi e abitudini volte allo spreco è il primo passo per una coscienza ecologica che possa ambire a salvare il pianeta. Però le risposte, e mi riferisco al quotidiano, non ai grandi discorsi o accordi dei capi di stato, alle volte sono talmente risibili da risultare meschine.

Per esempio adesso tutti vogliamo un mondo plastic free. Bene. E contro cosa si è accanita la nostra coscienza ecologica? Contro i sacchetti della spesa. Siamo passati da un mondo in cui ci dopo aver fatto la spesa ci consegnavano dei sacchetti di plastica che riutilizzavamo per gettare l’immondizia, a un mondo virtuoso in cui facciamo la spesa in sacchetti di cotone o materiale più resistente, e poi sacchetti di plastica per gettare l’immondizia li compriamo. Solo io mi rendo conto che qualcosa non funziona?

Io ammiro l’impegno di chi vuole migliorare l’ambiente in cui viviamo, ma ragazzi, avete delle travi nei vostri occhi talmente grandi da non riuscire nemmeno lontanamente a osservare le pagliuzze in quelle degli altri. Avete bandito la carne perché gli allevamenti sono il secondo fattore di surriscaldamento globale delle temperature, poi prendete un volo low-cost ogni fine settimana per fare shopping a Londra o Praga fingendo di dimenticare che gli aerei sono il primo fattore. Avete smesso di usare cannucce di plastica sostituendole con cannucce di carta (perché se beveste dal bicchiere come umili mortali nelle foto non riuscireste a fare la boccuccia a cuoricino), perché la plastica ha generato un continente di spazzatura che galleggia sull’oceano, poi mangiate fette biscottate light impacchettate una a una perché devono mantenere la fragranza.

Non fraintendetemi, io ci credo in un mondo plastic free. È solo che credo che la vera salvezza per il nostro pianeta credo che sarebbe un mondo human free.

Spero che ritorni presto l’era della pigrizia

Cuochi. i guru dei tempi moderniLa società dei consumi si basa su quei privilegi e piaceri, piccoli o grandi, che nella loro versione più sconsiderata la Chiesa cattolica ha spesso identificato con i vizi capitali. Fateci caso: per anni il paradigma principalmente televisivo dentro il quale siamo stati abituati a inquadrare non solo divi e attori, ma anche cantanti, presentatori, uomini e donne di spettacolo è stato quello della bellezza, ma di una bellezza sensuale inevitabilmente legata alla lussuria.

Che ci piacesse o no, i nostri idoli, i nostri punti di riferimento erano spesso, inutile negarlo, persone con cui avremmo trascorso volentieri un fine settimana in un centro benessere, di quelli magari gestiti da orientali senza troppo pudori. Ora, da qualche anno a questa parte la lussuria sembra cedere il passo, arrancare, di fronte al nuovo vizio che riempie le colonne dei giornali e le cronache televisive: la gola. D’altronde il sesso è sopravvalutato, si è detto, e poi non è alla portata di tutti. Non tutti possono avere un partner corrispondente ai propri desideri, tutti possono avere una Sant’Honorè.  Ed ecco che se una volta pendevamo dalle labbra di attrici sensuali e cantanti ammiccanti, adesso il nostro cuore batte solo per chi ci spiega che il ragù deve cuocere almeno per sette ore, e che la carne non va macinata ma sminuzzata con il coltellino anche se questo richiede altre dieci ore. Il tempo non è un problema per i nuovi guru delle nostre vite, per i signori del mattarello che con uno sguardo sono in grado di comprendere il nostro subconscio e condurci verso il viale luminoso dell’insalata d’oca distesa su un letto di misticanza di stagione.

Finirà anche l’era della gola, lo so. Durerà a lungo, forse decenni, ma finalmente lascerà il posto alla vera era di pace universale, altro che Acquario: l’era dell’accidia, o come dice chi vuol farsi capire, quella dell’ozio, o della pigrizia. Basta donne sensuali che non uscirebbero con noi nemmeno se possedessimo l’ultimo caricatore di cellulare sulla terra. Basta chef persuasivi che propongono ricette che richiedono di fare la spesa in tre continenti diversi e solo per ottenere manicaretti adatti a sfamare un passerotto. A solleticare i nostri appetiti saranno i nuovi leader, che ci convinceranno a dormire dodici ore al giorno, sostituire le scrivanie con divani imbottiti e lasciarci andare all’unico vizio di cui possiamo godere gratuitamente tutti, da soli e senza passare per depravati: quello di una sana e rigenerante dormita.

Mastersleep e prova del cuscino, aspettatemi.

Il ricalcolo post cacchiata

Succede anche ai più attenti: ti attardi a leggere il nome di un via e la metti a fuoco quando ormai l’hai superata, ti rendi conto che duecento metri in auto non sono poi così tanti, dai retta ai clacson che ti strombazzano nelle chiappe e tiri dritto sbagliando la svolta buona.

E lì, inevitabilmente, parte il “ricalcolo”. Il navigatore cioè si rende conto che hai fatto una cagata, ma non te lo fa notare, sensibile com’è, e cerca un’alternativa. Tanto a fartelo notare sarà tua moglie che ti griderà contro ecco lo dicevo io imbranato testone ci farai fare tardi un’altra volta. Ma questa è un’altra storia. Il buon navigatore non si perde d’animo: può darsi che attenti alla tua vita, invitandoti a fare una inversione U sulla statale che nemmeno Villeneuve contro Arnoux avrebbe osato tanto. Può darsi che ti faccia allungare il percorso di 15 km, ma tanto ha ragione lui, sei tu l’imbecille che non ha svoltato al momento giusto. Può darsi che ti proponga di attraversare il giardino di una coppia di pensionati che stanno giocando a burraco, ma una soluzione, il navigatore, te la da.

Quanto sarebbe bello avere un navigatore anche nella vita di tutti i giorni? Una ricalcolo della cacchiate. Uno che, dopo che hai detto no al colloquio che avrebbe dato una svolta alla tua vita, ti suggerisce subito di tornare indietro e magari implorare il selezionatore di ripensarci. Uno che dopo che hai dichiarato il tuo amore alla bellissima compagna di classe, ti indica che strada fare per mantenere la tua dignità quando lei lei lo racconterà alle amiche, con le lacrime agli occhi per le risate e una mano sui fianchi piegati. Anche più semplicemente uno che ti fa recuperare con una battuta dopo che hai chiesto ad un amica di quanti mesi è incinta, per sentirti rispondere che sono tre anni che non batte chiodo e al massimo potrebbe partorire della pasta asciutta.

Insomma, un navigatore post cacchiata ci farebbe comodo. Con quella freddezza dell’algoritmo che non scoppia a ridere, non si incazza e soprattutto non va a raccontare in giro che hai sbagliato l’imbocco della tangenziale. E però no, non funziona così. Perché il navigatore ha una destinazione precisa che abbiamo inserito all’inizio, sa che deve portarci lì. Il ricalcolo delle cacchiate non potrebbe aiutarci perché nemmeno noi sappiamo di preciso dove vogliamo arrivare. Al limite sappiamo che vogliamo raggiungere una bella casa con giardino vicino al mare, ma non abbiamo l’indirizzo. Più che auto in tangenziale, somigliamo ad autoscontro che girano e si scontrano all’impazzata, finché la carica non finisce.
Provate a portarvi un navigatore su un autoscontro.

Niente da fare, tocca evitare le botte da soli e sperare che la carica duri abbastanza.

Potrebbe piovere

Fotografia di Daniele Tarozzi
Fotografia di Daniele Tarozzi, il mago del pozzangherismo

Quando ero piccolo le giornate di pioggia mi mettevano di buon umore, come qualunque cosa insolita e nuova. Gli stivali di gomma dai colori sgargianti, l’impermeabile con l’odore acre di plastica tirato fuori dal cassetto più in basso, quel fiume che si riversava davanti a casa e che richiedeva un po’ di equilibrio per saltare senza finire impantanati.

Per chi è cresciuto in una regione in cui l’acqua è solo quella del mare e che ha il coraggio di chiamare fiumi sputacchi aridi come il Galeso, un giorno di pioggia andava vissuto e goduto in ogni momento.
Era bello starsene sotto le coperte mentre la pioggia ticchettava contro le finestre, era bello quel senso di nido mentre fuori infuriava l’acquazzone, persino stare in classe con le luci accese aveva un che di strano e bizzarro.
Tutto ciò succedeva puglia oltre trent’anni fa.
Già da studente mi resi conto che a Bologna la faccenda stava diversamente. Ricordo che a metà degli anni novanta arrivai a segnare una quarantina di giorni di pioggia consecutiva. Greta era ancora di là a venire e ancora non si attribuiva all’inquinamento quella che, all’epoca, era fondamentalmente solo una grandissima rottura di palle.
E in fondo il sentimento resta lo stesso anche oggi, dopo l’ennesimo week-end i pioggia, quando ormai senti che ti sei rilassato abbastanza, quando la tazza di tè mentre fuori piove comincia a stufarti, quando va bene leggere alla luce di una lampada ma anche una passeggiata in centro senza ombrello, una volta tanto, potrebbe risultare divertente.
L’acqua fa bene, se vivo qui anziché nella mia meravigliosa regione arida è anche perché storicamente le aree più piovose sono le più ricche. Il verde che godremo questa estate sarà frutto anche di queste piogge. Non porti l’auto al lavaggio da mesi e almeno esteriormente non se ne accorge nessuno, anche se appena si entra il trucco è svelato.
Occorre farsi coraggio: il paese è invaso da un rigurgito fascista, odio e rancore pullulano nelle nostre conversazioni, un senso di ineluttabile decadenza pervade le nostre prospettive.

Ma in fondo potrebbe andare peggio.
Potrebbe piovere.

Prima noi

[In chiesa]

Non penserà certo di sedersi qui, eh? Siamo già abbastanza stretti. Poteva svegliarsi prima. Poteva arrivare in orario, o in anticipo. Poi, chissà da dove viene? Non mi pare nemmeno di riconoscerlo. Magari non è nemmeno della nostra parrocchia. Io di sicuro non mi faccio più in là, se ne stia in piedi in fondo alla navata.  Ecco, lì, lì davanti c’è un posto. Ah, no, ora che guardo meglio, quel posto è occupato da Concetta, sicuramente lo terrà per il nipote che arriva sempre un po’ in ritardo. D’altronde, se Concetta è arrivata al momento giusto, avrà pure il diritto di riservare il posto per il nipote, no?

[Sull’autobus]

Che salti la fermata, l’autista, non vede come siamo ammassati uno sull’altro? Non è mica colpa nostra se l’autobus è così pieno. Dovrebbero passarne di più. Ecco, li vedo, pretendono di salire, si avanti c’è posto dicono loro, che vadano loro avanti allora, io di qui non mi muovo, ma figurarsi. Non c’è più rispetto. Aspetteranno la prossima corsa. O faranno un po’ di strada piedi, non è che adesso tutto il mondo debba salire proprio su questo autobus perché loro hanno deciso di prenderlo proprio adesso. Ma tu guarda che mondo.

[Al centro sociale]

L’abbiamo costruito noi, questo posto, io me le ricordo bene le pesche di beneficenza, e la fatica che abbiamo fatto a svuotare cantine, e le collette. L’abbiamo costruito con il sudore della nostra fronte, e quanto ci siamo battuti per averlo dal Comune! Non è stato facile, proprio per niente. Abbiamo dovuto convincere sindaco e assessori, e tutto il tempo che abbiamo trascorso per imbiancare, e sistemare le sedie. Me la ricordo ancora la festa di quando portammo qui il primo mangiadischi. E adesso? Adesso dovremmo condividerlo? Vorrebbero fare dei corsi di italiano, dice quel funzionario con la puzza sotto il naso che ha il coraggio di ricordarci che questa è una sala pubblica? Certo che lo sappiamo, questa è la nostra sala pubblica. E i loro corsi di italiano se li facciano a casa loro. Noi abbiamo i nostri balli di gruppo, la sala ci serve. Ma insomma.

Non siamo razzisti, siamo solo un po’ s****zi.

E mo’…bici!

Ebbene l’ho fatto. Sono tornato in bici, a quasi vent’anni da quel furto che segnò negativamente la mia esperienza di ciclista sotto le due torri. Era il 2000, dopo 6 anni a cavallo di ferraglia sgangherata, troppo arrugginita per interessare un ladro, avevo finalmente deciso di acquistare una bicicletta. 250 mila lire, usata, ma per un laureando era tanto, “tanta roba” come dicono a Bologna. Durò poche settimane, e l’immagine dei due lucchetti spaccati ancora evidentemente sconvolti e abbracciati al palo dove l’avevo legata mi ha perseguitato per anni.
Ma con Mobike è tutto diverso. Il funzionamento lo conoscete, si installa una app, si caricano pochi euro sul conto, e attraverso una mappa si va alla ricerca della bici più vicina da individuare, sbloccare, e lasciare una volta arrivati a destinazione.

La prima sgradevole impressione è che l’italiano è pur sempre un italiano, anche se va in bici. Ho individuato almeno tre mobike vicine a casa mia, ma invisibili: semplicemente, il genio l’ha lasciata in garage, per poterne usufruire a proprio piacimento. Si tratta di un malcostume che – ho letto – è piuttosto comune, e racconta bene la crisi prima di tutto morale di un paese che non riesce a superare le sue grettezze.

La seconda impressione è l’euforia di tornare a circolare in bici dopo tanti anni, su una bici tutto sommato comoda. Ha tre marce: la marcia Fantozzi con cui puoi pedalare quanto vuoi, resti sermpre lì, la marcia Coppi, con cui hai l’impressione di scalare le Alpi anche se sei in via Indipendenza, e una marcia intermedia che chiameremo “tu” perché è quella che userai tu. Ricorda che se sono trascorsi vent’anni dall’ultima volta che hai preso la bici, ne sono trascorsi venti anche per la tua prostata. Trattala bene. Le strade del centro di Bologna non hanno il problema delle buche, ma il rimbalzo sui mattoni di via Zamboni fanno male lo stesso. Penso che gli over 40 apprezzerebbero molto una versione moll-bike con un sedile imbottito e comodo, ma non stiamo a piagnucolarci addosso, che con la pancia le lacrime si fermano tutte sull’addome e non è bello.

La terza impressione è che le piste ciclabili sono belle (specie quando sono vere piste e non banali strisce bianche sul marciapiede) ma hanno la brutta tendenza a portarti dove vogliono loro. Perché tu ti fai prendere da quella trance agonistica e segui quelle strade con passione, ed è un attimo finire alla Bolognina quando invece dove andare in Via Saragozza. Non ho provato la tangenziale delle bici, ma so che quando lo farò comincerò a girare in circolo dimentico completamente delle destinazione, nel caso venite a cercarmi addormentato vicino a qualche albero, senza nemmeno l’ansia che qualcuno mi porti via la bici.

Mobike m’hai provocato, e io te pedalo.