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L’ansia prospettica

Tutti i genitori prima o poi scoprono di coltivare un po’ d’ansia nei confronti dei figli, di ciò che può succedere loro, del futuro.
Si va dagli apocalittici, che sconsolati ripetono che i loro bambini non vedranno l’alba del trentesimo anno perché il mondo finirà prima per via dei riscaldamento climatica, agli iperigienisti, che lavano e disinfettano tutto ciò che è a tiro del pargolo e lo rivestono di mascherina e guanti se proprio si rende necessario un contatto con l’esterno. Io non appartengo a nessuna di queste categorie, certo il succhiotto lo sciacquo se cade per terra, ma non sono troppo ansioso sul presente, e neanche sul futuro prossimo. Quello che mi mette in crisi è il futuro più lontano.
Che ci sarà, non sono mica apocalittico.
Però, sarà colpa della letteratura e del cinema di cui mi nutro o forse della mia formazione, le domande che mi pongo io sono: ma non è che partendo dal capellino firmato di Winnie da Pooh non arriviamo dritto dritto alle Winx e quindi al “papà voglio le scarpe di Prada”?
Non è che tutti questi pannolini imbottiti le faranno venire un sederone grosso così (a me piacciono le fat bottom girls ma non è detto che piacciano a lei)? Non è che a furia di sentire i discorsi del papà, per imitazione ed esagerazione, mi salta fuori un’anarchica inserruzionalista? Oppure, peggio ancora, per differenza, una clerico fascista? Mentre facevo zapping l’altro giorno, non avrà mica visto per caso Emilio Fede? No, eh? Perchè a questa età sono delle spugne.
Pochi minuti di TG4 adesso possono voler dire fra vent’anni: “Mi consenti, papà, cribbio! Anche se tu remi contro, io scendo in campo e vado a fare il provino per veline”
A quel punto la fine del mondo anticipata sarebbe una soluzione preferibile.

Chi non vuole lavorare, neppure mangi.

Chi non vuole lavorare, neppure mangi.
Non è uno slogan di Confindustria, neppure una frase all’americana per motivare i dipendenti. E’ la lettera di San Paolo apostolo ai Tessalonicesei, che si legge oggi in Chiesa. Paolo, si sa, è abbastanza concreto, non è un poeta come Giovanni e neanche uno storico erudito come Luca: gli hanno riferito che ci sono gruppi di cristiani che si stanno lasciando andare perché aspettano la fine del mondo che reputano vicina, e vuole spronarli a tornare alla vita quotidiana e al lavoro.
Attualizzare i testi sacri è sempre complicato e richiede competenze che (ops…) in questo momento mi mancano, ma non posso fare a meno di domandarmi cosa direbbe oggi Paolo a quelle persone che vorrebbero davvero lavorare, e magari anche a mangiare, ma che per farlo devono fare centinaia, migliaia di chilometri, e tornare a casa due volte l’anno. Migranti, emiganti, immigrati, chiamateli come volete.
Cosa gli direbbe Paolo? Probabilmente gli farebbe coraggio: se la fine del mondo non è ancora vicina, è anche e soprattutto merito loro…