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Ho sognato di essere Batman

Il fatto che i nostri sogni raccontino una parte di noi che non conosciamo, o che forse fingiamo di non conoscere, non è certo una novità. Ci sono fior di professionisti in prestigiosi studi del centro che, grazie a questa scoperta, si fanno pagare duecento euro all’ora per ascoltare i sogni altrui, accomodati su una poltrona in pelle, per poi tirare fuori un trauma infantile che sarebbe all’origine dei problemi del paziente, quasi sempre per colpa dei genitori.

Ora, di recente ho fatto un sogno che credo meriti di essere raccontato. Non a quei tizi delle poltrone in pelle di cui sopra, no grazie, al limite con me potrebbero tirare fuori la storiella dell’ansia prodotta dall’istinto di voler controllare tutto, che mal si concilierebbe con l’imprevedibilità della vita.

No, il mio sogno ho intenzione di raccontarlo a voi, che se vi va mi ascolterete gratis senza darmi responsi saccenti, se non vi va potete tornare a frugare su Amazon o Zalando, oppure sulla Gazzetta dello Sport o Youporn, a seconda dei vostri gusti (ho fatto un distinzione sessista? Sì, l’ho fatta. Denunciatemi alla Murgia se vi va).

Ebbene, qualche notte fa ho sognato di essere Batman. Complimenti all’autostima, starete pensando. In effetti mi rendo conto che come personaggio da impersonificare sia impegnativo, ma riflettiamoci un attimo: l’uomo pipistrello ha gadget fichissimi ed è un uomo super forzuto, però, alla fin fine, è un uomo. Non il figlio di qualche divinità nordica dotato di un martello mille usi che al Brico Center se lo sognano, e nemmeno un extraterrestre che vola e brucia tutto con la vista laser. Autostima sì, insomma, ma con moderazione.

Dunque, tornando al mio sogno, in veste di supereroe non dovevo confrontarmi con Joker e nemmeno sventare i piani criminali di Pinguino. Non c’erano. Ahimè non c’era nemmeno Cat Woman, che invece una ventina d’anni fa avrebbe monopolizzato le mie illusioni oniriche. Nel mio sogno affrontavo criminali, ma, come dire, si trattava della parte inutile della storia, come i dialoghi nei film di Rocky o le panoramiche turistiche finanziate dalle film commission nelle fiction Rai. I problemi erano altri.

In primis, parcheggiare la Bat Mobile. Sì, lo so, questo più che un sogno è un incubo, ma vivo a Bologna, la città dove i possessori di auto nella considerazione degli amministratori sono criminali da punire senza pietà, meno forse degli spacciatori ma di sicuro più dei vandali. Dove la parcheggi la Bat Mobile, che tra piste ciclabili, posti auto per disabili e riservati ai commercianti, ormai si trova parcheggio solo tra le 9 e le 10 del mattino? E se ci fosse bisogno di Batman in un’altra ora? Ce lo vedete Batman che aspetta il 13, per scoprire poi che in centro non ci arrivi più nemmeno con gli autobus, perché nella città più progressista d’Italia il centro deve essere lasciato libero ai tavolini?

Questa parte del sogno veniva risolta perché non usavo l’auto, punto, il mio inconscio lo risolveva così. Però si poneva una seconda questione. Una volta concluso l’intervento, dovevo tornare ad essere Bruce Wayne, perché mi attendevano a una riunione, o a una mostra, vai tu a sapere. Allora, dove lo riponi il travestimento di Batman? Di Clark Kent sappiamo che andava in giro sempre con il costumino di Superman sotto i vestiti, e gli evidenti problemi di traspirazione mettevano continuamente in crisi il suo rapporto con Lois Lane. Per non parlare della questione del mantello. Dove lo tieni nascosto quel mantello, birbante? Lo tiri fuori con un colpo di magia dal buco del… cilindro? Ma dove lo tiene il cilindro il signor Kent?

Insomma, dove lo ripone il suo armamentario Batman quando torna in abiti civili? Consideriamo che si tratta di un outfit piuttosto impegnativo da dismettere. Ti porti dietro un trolley? E se le orecchie a punta di sciupano? Uno zaino tipo camminatore? Può funzionare, però che ci fa un miliardario come Wayne con uno zaino sulle spalle? Non è credibile. Non sapere dove riporre la propria roba è un incubo, ammettiamolo.

Anche in questo caso il mio inconscio risolveva con l’ennesimo buco di sceneggiatura: mi ritrovavo infatti a riporre il costume nero nel cassetto, facendo attenzione a non esagerare che poi si sfondano, come fanno abitualmente persone a me care riponendoci più di quanto non possano contenere, sfidando la legge della impenetrabilità dei corpi.

Dopo di che qualcuno (un parente, ma non ricordo chi) apriva il cassetto e apriti cielo, che ci fa un costume di Batman qui?

È per Carnevale, rispondevo io prima di svegliarmi e tirare un sospiro di sollievo.

Con una consolazione: non sono un supereroe, o forse lo sono sempre stato senza rendermene conto.

Automobilista RAUS!

Ho un abbonamento annuale agli autobus, uso di tanto in tanto i servizi che consentono di noleggiare bici in città, se devo visitare una città lo faccio preferibilmente in treno. Insomma, sono uno che nei mezzi pubblici crede.

Però non riesco ancora a fare a meno del tutto dell’auto: aerei e treni a lunga percorrenza sono più cari del mezzo privato, specie per le famiglie, la maggior parte dei bus scompare dopo il tramonto, spostarsi in Appennino senz’automobile è come arrampicarsi sull’Everest con le infradito. Quando serve, serve.

In quanto automobilista (seppure a tempo perso) comincio a soffrire questo atteggiamento tipicamente cittadino di celato disprezzo verso i possessori di automobili, che si traduce nella continua, ossessiva riduzione dei posti auto.

Per carità, le piazze trasformate in parcheggio sono un insulto. Avete mai visto una vecchia foto in bianco e nero di piazza Maggiore piena di automobili parcheggiate? Fa male al cuore. Però, visto che ci sono quartieri periferici in cui, nei beati anni Cinquanta, si sono costruite palazzine su palazzine senza minimamente pensare alla necessità degli inquilini di parcheggiare, non si può pretendere che uno si porti la vettura in salotto.

Qualche esempio? Il parcheggio per disabili è sacrosanto, un segno di civiltà. Però se nel mio quartiere a Bologna negli ultimi anni praticamente un parcheggio su dieci ha le strisce gialle, o tutti i reduci e i mutilati di guerra si sono trasferiti qui, o forse bisogna ripensare il modo in cui questo diritto (ripeto: sacrosanto) è gestito, perché se il figlio del mutilato morto e sepolto continua a parcheggiare nelle strisce riservate, c’è qualcosa che non va. Poi sono arrivate le colonnine per la ricarica elettrica: giuste anche loro, il giorno che le vedrò usate giuro che farò una fotografia e la manderò a tutte le testate giornalistiche, come è giusto che avvenga per un evento storico.

L’ultima tendenza è quella, semplicemente, di eliminare posti auto in strada per il gusto di farlo. Segnali di divieto che appaiono su strade larghe dove la gente ha parcheggiato per decenni, posti auto sacrificati per le piste ciclabili, per il tram, per le corsie preferenziali, per la lotta allo smog e la pace nel mondo. I sindaci progressisti, quando sono in difficoltà, si recano alle pendici del vulcano consacrato e sacrificano posti auto vergini.

Attenzione, però, che questo ambientalismo di sinistra e popolare ha veramente poco. Perché i signori con le villette monofamiliari le auto le tengono nei loro eleganti box con apertura automatica. Sono i poveri cristi che, dopo aver girato per un’ora alla ricerca di un posto auto in quartiere, sospirano e recitano un eterno riposo di fronte all’ennesimo parcheggio che non c’è più,  sacrificato in nome di un bene comune superiore.

Rivoglio il mio giornalino gratuito!

Sono un discreto lettore di free-press. Mi riferisco a quei giornalini gratuiti pieni zeppi di pubblicità che vengono distribuiti in giro. Qualitativamente sono piuttosto scarsi (copiano e incollano pari pari molte agenzie e articoli di praticanti/stagisti/aspiranti), però a caval donato non si guarda in bocca. A dire il vero, non è solo il fatto che siano gratuiti a piacermi (in fondo un quotidiano costa meno di un caffé), anche perché erano gratuiti anche quei giornalini pieni di annunci che andavano di moda qualche anno fa e li prendevo solo per pulire i vetri.
La free-press mi piace perché risponde ad un’esigenza, quella di leggiucchiare qualcosa di fretta in autobus, o in pausa pranzo, o addirittura nel parcheggio. Non ti mette l’ansia delle novecento pagine di un quotidiano, tra le quali devi immergerti per trovare quello che ti interessa, sommerso come sei di editoriali, promoredazionali e chiacchiere da uffici stampa; e poi non ti lascia neanche lo scrupolo di coscienza di averne letto solo il 3%. C’è un risvolto della medaglia spiacevole, però. La free-press è imprevedibile: non nei contenuti, ma nella distribuzione. Rilanciando il ruolo strategico del vecchio strillone, sostituito da immigrati con i polmoni più grigi del sacchetto di un aspirapolvere, il giornale gratuito si recupera la mattina agli incroci. E allora può capitare di perdere la copia perché il verde scatta prima che arrivi il tuo turno: oppure perché il distributore è distratto. Oppure, e questa è la mi situazione, perché un giornale prende il posto si un altro. Questo è il mio caso: il semaforo di Via San Donato (otto strade che si intersecano e una porta medievale in mezzo, sembra un dungeon fant-horror più che un incrocio), da sempre presidiato da City, il mio giornalino preferito, da qualche tempo è stato conquistato da Metro. Il cambio non mi soddisfa, Metro praticamente non ha notizie locali, dedica spazi a viaggi e costume e sa molto di accrocchio (almeno City e Leggo una linea editoriale molto vaga ce l’hanno).
Rivoglio City.
Come? Dovrò cambiare strada, evidentemente.
Chissà che il traffico non si possa misurare anche da questo.