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Il simpatico Tom

Immagino che in tanti approfittino dell’estate per qualche gita fuori porta, oppure per visitare nuove regioni. Spesso in questi frangenti il nostro caro amico Tom può esserci d’aiuto. Soprattutto da un punto di vista psicologico: lui sa, infatti, dove conduce quel tratturo di campagna tra sassi e vigneti.
Il punto è: perché ci ha condotti in un tratturo di campagna tra sassi e vigneti dove mai ci saremmo avventurati senza la sua sciagurata guida?
Perché Tom cerca quelli che chiama "percorsi veloci". Tanto per farci un’idea, se aveste sete nella notte e decideste di seguire i suoi consigli per bere un bicchier d’acqua in cucina, lui vi consiglierebbe di uscire dalla finestra, finire in balcone, scavalcare per finire in quello del soggiorno senza guardare giù e incunearvi sotto la tapparella. Dal suo punto di vista, quello è il percorso più veloce, perché è il più breve.
Ecco perché, se si decide di seguire i suoi consigli, bisogna prepararsi a scoprire borghi medievali diroccati e impervi sull’appennino, cittadine meridionali sonnolente e con le strade sgangherate, popolosi sobborghi di periferia dove i tram non vanno avanti più.
Oppure fargli ricalcorare il percorso, e dare un’occhiata al caro atlante stradale per non finire sul tratturo tra i vigneti e i sassi.

La verità è un atto di amore

Diciamolo: dobbiamo ringraziare il signor Povia se con la sua canzone reazionaria qualcuno si ricorderà di questo festival. Il ritornello poi è orecchiabile, e siccome trovo desolanti le parole le cambio continuamente (Luca sta con Ray… è ritornato gay) e la canticchio distrattamente.
Se da un punto di vista spettacolare infatti questa edizione è fatta bene, ha ritmo, giusto equilibrio e soprattutto l’ottima idea di abbinare i giovani a vecchi marpioni come Pino Daniele, Zucchero o Vecchioni, soffermarsi sul valore delle canzoni in gara dei cosiddetti “big” dà credito ad un panorame di desolante mediocrità.
Renga imita Albano (e io ancora lo ricordo hard-rock con i Timoria ad una festa dell’Unità di 15 anni fa), Albano fa la caricatura di se stesso, Iva Zanicchi si propone con un pezzo sexy che sembra l’inno della tardona, i cantanti che dovrebbero piacere ai giovani (Afterhours e Tricarico) stonano impietosamente, Masini nasconde dietro il turpiloquio una vena creativa in deficit. L’unico personaggio simpatico alla fine di tutto risulta essere il nonno dei Gemelli Diversi che disertò il duce.
E allora ecco che si discute del brano di Povia: che non sia “solo una storia” come recita il testo ma la punta d’iceberg di un bubbone di un’Italietta retrograda spaventata dai tempi moderni lo si capisce subito. Il ricorso al rap, per esempio, evidenzia proprio il tentativo di dare una struttura da comizio al brano. Mentre in Italia ci stordiamo di reality show e cellulari, infatti, nel mondo un uomo di colore è presidente degli Stati Uniti, le donne cominciano faticosamente a conquistarsi il posto che meritano persino nei paesi arabi più oltranzisti, Internet svilisce il concetto di razza e nazione e dà origine a nuove forme di coalizione sociale. Il fondamentalismo confuso e new age di cui Povia si fa portavoce non può che essere stordito e irritato da tutto ciò, ma siccome cantare  contro le donne che anziché starsene a casa lavorano sarebbe troppo, meglio prendersela con i più deboli, e cioè gli omosessuali.

Che intende per famiglia tradizionale?
«L’uomo fa l’uomo e dà la guida spirituale, la donna nutre e alleva i figli. E insieme formano equilibrio e stabilità. Oggi, però, nessuno vuole fare la sua parte. Gli uomini si depilano» (…)(Dall’ intervista di Andrea Scarpa a Povia, su “Vanity Fair”)

Per questo a spaventare non è una piccola canzone il cui tema di fondo è il più vecchio dei luoghi comuni, cioè che l’omosessualità è una devianza del comportamento dovuto a problemi familiari, ma il rancore che sembra covare contro gli altri, gli invertiti, i diversi.
Ama e fa ciò che vuoi diceva Sant’Agostino: non c’è traccia di amore, nella canzone di Povia, è questa la cosa più triste.


“Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene”.

(Sant’Agostino, omelia 7 del 20 aprile 407)

Ball Center

Dei call center si parla spesso per le condizioni disumane di lavoro, per le paghe da terzo mondo, per l’alienazione di chi deve dare risposte precompilate per ore e ore senza poter mai staccare gli occhi dal monitor.
Se ne parla perché è un lavoro che non prevede possibilità di far carriera, e perché in molti casi neanche lo stipendio è sicuro, essendo legato all’efficacia dell’operazione telefonica (in caso di telemarketing).
Io vorrei aggiungere un altro punto di vista: quello del cliente. Sono stufo di musichette noiose (fosse una canzone intera: sono brani di pochi secondi ripetuti ossessivamente), di aspettare anche 15, 20 minuti prima di una risposta, di ragazzi stressati che danno risposte a vanvera e si contraddicono. C’è Lucia per cui il servizio è disattivo, secondo Marco funziona tutto perfettamente, Giulia consiglia di staccare la corrente e riavviare, per Franco il servizio non esiste. Mai due volte la stessa risposta, e soprattutto vaghezza, incertezza, ambiguità, tentennamenti, risposte evasive e provare a prenderci.
Basta!!!!
Assumete delle persone, formatele, fategli fare dei corsi, spiegategli le offerte e i vostri servizi, date modo loro di riposarsi di tanto in tanto, pagateli di più, fate quello che volete ma datemi un servizio decente. Non faccio nomi di aziende tanto, con qualche rara eccezione, la mediocrità del servizio è dilagante.
Salve sono Carla, in cosa posso aiutarla? In niente, Carla, tu hai studiato filosofia teoretica, per te l’ìp è una pompa di benzina e sono sei ore che prendi insulti per conto della tua azienda. Tu non puoi aiutarmi, Carla: spiegalo al tuo capo.

Educare ? meglio che reprimere

A Taranto si chiamava “filone”, qui a Bologna parlano di fuga o fughino, in Lombardia si “bigiava”. Mi riferisco alla pratica comune a tutta la penisola, variamente definita, di assentarsi da scuola e passare la giornata a zonzo all’insaputa dei genitori. D’ora in poi non sarà più possibile: un sms della segreteria informerà i genitori dell’assenza del figlio. Da un punto di vista educativo nulla da eccepire, eppure la notizia mi ha messo un certo disagio addosso. Intanto per la freddezza e la sinteticità dello strumento, che non può sostituire, sul piano emotivo,una telefonata (che di solito si faceva in caso di recidivi, mentre qui pare di capire che l’sms parte subito). E poi perché istituisce già nei giovani quell’idea di stato di polizia che vigila e ti controlla: un’idea che genera mostri. A quando il nasovelox che ci immortala con le dita nel naso e ci multa per inquinamento, il teledrin che squilla in questura quando diciamo parolacce e l’archivio centralizzato delle donne che fingono l’orgasmo?

Per le lettrici le dimensioni contano

L’altro ieri chiacchieravo con l’edicolante del Centro Lame, una persona molto cortese che ha deciso di vendere alcune copie del mio romanzo (vendute 13 su 15, ma non fa testo, le hanno comprate tutte i miei colleghi). Mi ha consigliato di scriverlo un po’ più lungo, la prossima volta: una ragazza si è lamentata di averci messo mezz’ora a leggerlo tutto. A parte il fatto che io mi lamenterei dei romanzi che non sono riuscito a completare o che ho completato in dieci anni, e non di quelli che leggo in poco tempo; però la faccenda mi ha fatto riflettere. Si perchè gli autori vorrebbero scrivere, scrivere, scrivere, non si risparmiano, sapete: sono gli editori che (giustamente, dal loro punto di vista) tagliano, tagliano, tagliano. Anche Bello dentro ha subito un bel po’ di dolorose ma necessarie sforbiciate. Che dire, alla ragazza che ha letto il mio romanzo in mezz’ora? Nella quarta di copertina avevamo azzardato un paio d’ore di lettura piacevole, in effetti 30 minuti sono proprio pochi. Prometto che il prossimo romanzo arriverò a scrivere 600 pagine. Almeno 200 dovrebbero pubblicarmele, no?