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Il guscio sottile della notte, di Sabrina Leonelli

Eh, signora mia, non è più la Bologna di una volta. Quando ero giovane io si poteva uscire tranquilli la sera, non c’erano mica queste brutte facce in giro. La città è cambiata, è peggiorata. Non la riconosco più. Se penso che quarant’anni fa…

Sostituite a Bologna il nome di qualunque altra città italiana, e vi ritroverete di fronte a uno dei più abusati dei luoghi comuni, quello che una volta si stava meglio. La diffusione di questi ragionamenti può essere interpretata in diversi modi. Secondo me, banalmente, non si ha nostalgia della città di quarant’anni prima; si ha nostalgia della propria vita di quarant’anni prima, si ha nostalgia della propria giovinezza.

Sabrina Leonelli questo errore non lo commette. La Bologna anni Ottanta è una Bologna vera, realistica, non diversa da tante città italiane dell’epoca, realtà dove lo spaccio di stupefacenti era sotto gli occhi di tutti. La diffusione di eroina in particolare era tale che non c’erano giovani, all’epoca, che non conoscessero un amico, un parente, un conoscente vittima di questa schiavitù. Io ricordo ancora, per esempio, l’attenzione che bisognava porre quando si attraversavano i giardinetti vicino alla stazione del mio paese, dove tra i cespugli non era difficile trovare siringhe usate.

La storia del romanzo è quella di un gruppo di amici (una volta si diceva “una comitiva”) che vivono nello stesso quartiere popolare e si incontrano nei dintorni di un muretto. Ecco, forse questa socialità in effetti si è persa: negli anni Ottanta e Novanta i ragazzi eleggevano una piazzetta, un angolo, un vicolo a loro residenza temporanea, lì si incontravano, interagivano, nascevano le prime storie d’amore, le prime gelosie.

Uno di questi amici vive un’esperienza dura che mette in crisi le sue certezze e intraprende quel percorso di discesa all’inferno che rappresentava e rappresenta l’uso di sostanza stupefacenti. L’autrice non fa sconti nel racconto dettagliato di cosa vuol dire essere in crisi d’astinenza, e spero che magari qualche ragazzo che dovesse leggere il libro possa avere un motivo in più per stare lontano da quella merda.

La rete di amicizie per fortuna è la nota di speranza di questa vicenda, visto che “i ragazzi del muretto” non abbandonano uno di loro nel momento del bisogno. In particolare la protagonista femminile mostra un coraggio e una generosità non da tutti, donando una colorazione rosa (oggi si direbbe romance) a un racconto drammatico.

Eh, signora mia, non ci sono più le comitive di una volta. Mi sa che questo è vero. I nostri figli atomizzati da smartphone e cuffie che creano rapporti effimeri e li isolano dal mondo esterno, non si incontrano più al muretto, ed è un peccato.

L’uomo che allevava i gatti

Raramente capita di assistere a una tale divergenza tra una forma espressiva poeticamente così coinvolgente e un contenuto così drammaticamente duro, a tratti indigesto.

I racconti di Mo Yan raccolti nel volume “L’uomo che allevava i gatti” hanno una musicalità straordinaria, tanto che vien voglia di leggerli ad alta voce (complimenti anche al traduttore). Mai una parola fuori posto, un aggettivo inutile, il testo ha una grazia sorprendente e a tratti commovente. Le storie che racconta, di converso, sono atroci.

Siamo nella Cina della politica del figlio unico, tra contadini ben lontani da un’immagine edulcorata che ci viene a volta proposta di “uomini e donne umili ma di buon cuore”. Sono spietati, crudeli, egoisti. Non c’è traccia di senso materno nelle donne, non c’è affetto negli uomini, solo disperata lotta per la sopravvivenza.

A pagarne le conseguenze sono quasi sempre i bambini, i più deboli e indifesi; per non parlare delle bambine, abbandonate per strada dopo la nascita perché se puoi avere un solo figlio, almeno che sia maschio. Non c’è speranza di redenzione in questa umanità, è un libro letteralmente deprimente (ma non lo considero un aggettivo negativo: ti mette di fronte a una cruda realtà che deprimerebbe chiunque).

In particolare il secondo racconto, Il fiume inaridito, è straziante e indimenticabile, nelle sue vivide immagini di morte e disperazione. Un capolavoro assoluto, una lettura consigliata con qualche controindicazione sull’umore.

Come vento cucito alla terra, di Ilaria Tuti

Faccio una premessa doverosa: chi scrive, anche a livello dilettantesco, è spesso invidioso nei confronti di chi ha più talento e più successo. Aggiungo poi che sono mesi che mi sento dire “Devi leggere Tuti” “Ah io leggo solo Tuti” “Tuti Tuti, Tuti tutto l’anno” per spiegare che mi sono avvicinato a questo romanzo pieno di aspettative e pregiudizi, in parte ahimè confermati.

Gli ingredienti più amati da un certo pubblico ci sono tutti: donne talentuose, coraggiose, eroiche, intelligenti, brillanti, circondate da uomini ridicoli, stucchevoli, stupidi, insignificanti, infantili. Nella migliore delle ipotesi, teneri coccoloni da proteggere e consolare, non è colpa vostra in fondo se siete maschi. Non manca neanche la sotto trama di discriminazione LGBT senza la quale oggi non sei nessuno. Sia chiaro, la confezione è perfetta, sin troppo studiata: dialoghi sagaci in cui le donne accettano il ruolo di salvare il mondo con garbo e determinazione, intervallate da lunghe e dettagliate descrizioni di ferite, mutilazioni, cancrene e infezioni per dire che la guerra è una roba da maschi, e pertanto fa schifo.

La storia: un gruppo di donne chirurgo decide di salvare soldati gestendo in autonomia ospedali. L’establishment maschilista fa di tutto per contrastarle, specie quando si mettono a insegnare il ricamo ai soldati mutilati dalla guerra. Fine. Non succede altro. Va detto che l’autrice spiega nelle note di essersi ispirata a vicende reali, e questo probabilmente ne ha limitato le possibilità espressive. In qualche momento c’è un po’ più di tensione sul campo (molto valido il tentativo di stanare il cecchino), ma giusto un po’.

C’è spazio anche per la famiglia reale, o almeno per la parte cool, cioè quella composta da donne.

Ovviamente Cate, la protagonista, ha l’intelligenza di Einstein, il coraggio di Wallace e i muscoli di Rambo, grazie ai quali salva due volte un maschietto appena più decente degli altri che si caccia sempre nei guai.

Ho come l’impressione che queste storie non facciano un gran servizio alle sacrosante rivendicazioni del femminismo e alla lotta per l’emancipazione femminile, ma che volete, sono solo un maschio invidioso.

Chiudo con un paio di citazioni, se volete leggetele ad alta voce con il sottofondo di “The eye of the tiger” dei Survivor e alla fine vi sembrerà quasi naturale gridare “Adrianaaaaa”.

“La sua voce era calma mentre il loro mondo andava in fiamme. Cate capì che ciascuno di loro in quegli attimi concitati sentiva di avere un destino da compiere, e non poteva sottrarsi senza in seguito doverne rendere conto a se stesso”.

“Le luci barbare che la notte ardevano nelle latebre delle prime linee non erano solamente quelle delle torce da campo. Era l’anima a bruciare di puro istinto, a sopravvivere perché dimentica di tutto ciò che era stata nella vita precedente; un altro sé, fino ad allora rimasto sopito, si era risvegliato e faceva digrignare i denti (…)”

“Ciascuna di loro era chiamata a stare in piedi davanti alle proprie rivendicazioni, e non solo metaforicamente. Era la storia a chiamarle, era il sacrificio delle compagne rinchiuse in cella e torturate, e ancora di più di quelle percosse dentro le mura di casa”.

La boutique del mistero, di Dino Buzzati

Alla fine comunque si muore. Per fortuna, verrebbe quasi da dire.
Il titolo della raccolta di racconti di Dino Buzzati “La boutique del mistero” potrebbe trarre in inganno: non si tratta di un giallo su una commerciante di abbigliamento che fa la serial killer. Il mistero cui fa riferimento il titolo è il mistero per eccellenza, cioè la morte, e i sentimenti a lei connessi: l’angoscia, la paura, l’ansia.

I presagi della morte, che siano una malattia o il naturale invecchiamento, diventano così lo spunto per riflettere su quel pensiero che, volenti o nolenti, turba tutti noi. Sia chiaro però che qui non siamo di fronte a racconti semplicemente cupi, al contrario: il talento di Buzzati, complice anche il fatto che i racconti sono stati scritti in epoche diverse, sta nel cambiare registro, ritmo, stile addirittura viaggiando dall’epica bellica al racconto realista, dal fantastico al gotico passando persino per il fantascientifico.

Non manca poi quel tocco di umanità che l’autore ci regala mettendosi in gioco in prima persona di tanto in tanto e lasciando spazio a una speranza spirituale.

Ognuno potrà scegliere il preferito, alla fine rimane solo un rimpianto. Se Buzzati fosse vivo oggi, altro che Stranger Things, Black Mirror, The Loop o Russian Doll, chissà che razza di serie imperdibili potrebbe scrivere. Anche perché, a ben guardare, la stragrande maggioranza degli espedienti narrativi del genere fantastico li aveva messi in campo con cinquanta anni di anticipo. Compreso l’inevitabile finale: alla fine, comunque, si muore.

Consigliatissimo a chi vuole anticipare le atmosfere del 2 novembre senza scadere nella narrativa grossolana e truculenta di zucche, spaventapasseri e dolcetti scherzetti.

Essi puzzano. Fenomenologia del rompiballe

C’è quello che si lamenta della temperatura inappropriata del vino dopo aver mangiato in una tavola calda di campagna. Quello che denuncia lo scandalo di una televisione senza Sky in una pensione due stelle sul lungomare. Quello che fotografa inorridito la crepa nell’asse di legno che ha trovato sotto il divano del bed & breakfast, e la pubblica chiedendo giustizia.

Davvero, non invidierò mai i gestori di alberghi, ristoranti, villaggi turistici, e in generale chi offre servizi al pubblico, a questo genere di persone. Visto che li definirei volentieri con epiteti da codice penale, qui mi limiterò a chiamarli puzzoni, perché questa gente lascia con sé una scia di rancore, rabbia, frustrazione, una scia nauseante ovunque essi passi.

Occupandomi di comunicazione istituzionale, conosco benissimo questi individui. Più gretti, avidi e di orizzonti limitati sono, più si lamentano, e scrivono, e blaterano.

Però noi dipendenti pubblici in un certo senso ci abbiamo fatto il callo, agli insulti di chi si sente offeso se, maledetti burocrati. pretendiamo che si paghi il bollo se dovuto sui certificati, alle urla di chi si lamenta che l’ufficio non è aperto il giorno in cui lui ha deciso di presentarsi senza prima consultare niente e nessuno, alle minacce di chi non paga le tariffe scolastiche perché risulta nullatenente e manda la badante a prendere i figli all’uscita di scuola con il suv.

Però per i gestori di pubblici esercizi privati deve essere davvero dura, perché non è che possono mettere la foto di un rompiballe e scrivere “io non posso entrare” alla porta. Grazie ad internet questa fanghiglia adesso emerge, ma c’è sempre stata. Prepotenti che pretendono uno sconto perché non hanno gradito l’aperitivo di benvenuto, sociopatici che non tollerano la dimensione della stanza che non corrisponde a quello che hanno visto sul depliant, peccato che sul depliant abbiano ammirato la “suite deluxe splendor” per poi prenotare una più economica “small nofrills ex-sgabuzzo delle scope ma se a voi va bene pure a noi”.

Un film di fantascienza anni ottanta, “Essi vivono” di John Carpenter, raccontava di una invasione silenziosa di alieni, che potevano essere individuati solo grazie a speciali occhiali. Ebbene, gli occhiali per smascherare i puzzoni li abbiamo, è internet. Se solo potessimo lasciarli fuori, dai ristoranti, dai servizi pubblici, dalla vita civile, quanto saremmo tutti più felici?

Purtroppo non si può, e non ci resta che annusare l’aria intorno a noi, e prendere le distanze appena ne individuiamo l’olezzo ributtante.

Magnitudo Apparente, di Roberta De Tomi

cover_Magnitudo_ApparenteSarà capitato a tanti adolescenti di trascorrere qualche settimana a casa degli zii, magari durante le vacanze estive. Proprio quello che succede a Nicolò, uno dei protagonisti di Magnitudo Apparente, romanzo di Roberta De Tomi edito da Lettere Animate Editore, che trascorre un’estate a Milano lavorando per lo zio che ha uno studio di contabilità. Un’occasione per vedere posti nuovi, fare un’esperienza lavorativa, uscire un po’ di casa.
Ma non è un’estate come un’altra, e Nicolò non viene da una zona qualsiasi: è il 2012 e Nicolò viene da una città emiliana “della Bassa” (così viene spesso definita nel romanzo la provincia a nord di Modena) sconvolta dal terremoto di maggio.
Il terremoto è uno dei protagonisti di questa vicenda, ma l’autrice è scaltra nel raccontarlo nei riflessi opachi di esistenze  profondamente ferite. Più che gli accadimenti sono infatti i ricordi, le descrizioni delle macerie, i racconti di chi è sopravvissuto a quella terribile pagina della storia emiliana a renderci partecipi di un dramma così profondo.
Parte dei racconti vengono proprio da Nicolò, che porta nel cuore di una grigia e distratta Milano l’esperienza di un terremotato molto legato alla sua terra. Una Milano dove tutti sembrano preoccuparsi solo di fatture, clienti e lavoro. In una famiglia “per bene” che, come succede spesso, nasconde tensioni e incomprensioni che l’arrivo di Nicolò contribuirà a far emergere
Un’altra delle voce emiliane, dalle cui parole il lettore scoprirà quel vuoto che lascia nell’anima l’esperienza di un sisma, è una misteriosa donna che ha qualche legame con Carlo, lo zio di Nicolò che evidentemente ha qualcosa da nascondere a sua moglie Rosanna e sua figlia Nicole.
La storia prosegue quindi per immagini, quadretti accostati come scene teatrali in cui più che il filo del discorso o l’intreccio a contare sono i sentimenti sottaciuti, nascosti, talvolta gridati dai protagonisti. Se si trattasse di cinema diremmo che è una storia di primi piani e lunghi piani sequenza più che di montaggio forsennato.
Una storia non facile, che non strizza l’occhiolino al lettore come spesso accade negli autori più giovani ma che nella sua sincerità rappresenta una testimonianza autentica del terremoto del 2012. Con qualche riferimento qua e là alla cultura musicale dark e metal che il sottoscritto ha evidentemente apprezzato.
Un’ultima nota la merita Nicole, la cugina di Nicolò, personaggio femminile centrale “schiacciato” tra genitori ingombranti, esigenti e molto concentrati su se stessi e  figure maschili di successo presente o futuro (il fratello Giordano, il cugino Nicolò). L’autrice la definisce una NEET “Not (engaged) in Education, Employment or Training“, cioè una persona non impegnata nel lavoro, nello studio o nella formazione. Si tratta di un “tipo” sociale abbastanza recente che individua quei giovani che vivono in famiglia (le fasce d’età variano partendo dalla fine della scuola dell’obbligo fino alla soglia dei 30 anni e oltre) e che “galleggiano” in un’esistenza sospesa in cui hanno finito di studiare ma non riescono a trovare lavoro. Nicole in particolare ha un talento artistico e la storia lascia presagire qualcosa di buono per lei, ma non è detto che questo accada a tutti i giovani senza lavoro dopo gli studi (in Italia sono il 25%) di cui finora ci si è svogliatamente occupati solo in studi statistici. Bisogna che qualcuno prima o poi si accorga dei Neet, sembra dirci l’autrice, e non vedo come darle torto.