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Quei giovani da valorizzare

Ogni anno, in questo periodo, resto particolarmente colpito dall’entusiasmo, l’abnegazione, la professionalità di ragazzi giovanissimi che lavorano nel settore turistico. Sono attenti, pronti, dinamici. Penso per esempio ai ragazzi che nei villaggi turistici lavorano diciotto ore al giorno per paghe miserevoli, organizzando attività sportive, animazione serale, balli e giochi vari, ma anche servendo ai tavoli, cucinando, riassettando. Con l’energia, la propositività, lo spirito che solo a vent’anni puoi avere.

Ma anche quelli che lavorano nei ristoranti o negli hotel, o magari fanno solo del volontariato per la sagra della Pro Loco. Quanto farebbe comodo ad un ufficio dell’INPS, per esempio, avere un po’ di quello spirito? L’esempio dell’INPS è casuale, qualunque ufficio pubblico, condannato dal blocco del turn over ad essere popolato da cinquantenni quando va bene, avrebbe un disperato bisogno di forze fresche.

Se vogliamo lasciamo perdere il pubblico, visto che tanto il progetto dei nostri governanti è quello di portarlo all’esaurimento sostituendolo con appalti succulenti per ditte amiche, ma possibile che neanche le aziende riescano a intercettare queste capacità? Sicuramente ci sono dei ragazzi “bamboccioni”, ma ce ne sono anche di volenterosi, e non valorizzarli è un delitto. Possibile che solo un capo vilaggio sia in grado di fornire loro un’occasione professionale?

mareQualcuno potrebbe obiettare che il lavoro nel settore turistico è più ambito di quello, non so, in un ufficio, o in una fabbrica. Ma infatti io non sto proponendo di far trascorre l’estate ai ragazzi imbullonando macchinari. Lasciamo che operino pure dove gli pare, che si godano le loro vacanze tra un esame universitario e l’altro. Poi, quando dovremo selezionarli tramite un colloquio, anziché chiedergli un diplomino di lingua comprato dal papà, chiediamo loro come hanno trascorso l’estate dopo i diciotto anni. Secondo me potremmo avere delle ottime sorprese.

Due o tre concetti per capire la PA

ministeroIn questi giorni leggo molti articoli che annunciano l’arrivo della carta di identità elettronica, con il condimento dei soliti luoghi comuni: ci sono voluti anni di sperimentazione, la PA italiana è un fallimento, fannulloni, che vergogna, bla bla bla. Ovviamente lasciamo da parte i commenti di chi non è riuscito ad andare oltre la terza media e quindi si sente escluso dalla possibilità di diventare un dirigente pubblico (maledetti burocrati!) e anche da chi non paga le tasse da vent’anni e si lamenta dai disservizi pagati dalle tasse di vicini. A questa gente qui preferisco non rivolgermi, che sarebbe tempo perduto. A tutti gli altri sì, per spiegarvi un po’ come funziona la PA in Italia e il rapporto con la politica.

Facciamo un esempio. Immaginiamo di dover organizzare un evento, non so, per i nostri dieci migliori clienti. Abbiamo dieci mila euro per dieci invitati. Ebbene, le alternative non mancano. Con mille euro a testa possiamo organizzare un weekend in una città d’arte e pagare viaggio, vitto e alloggio per gli ospiti. Certo non prenoteremo al 5 stelle e non voleremo a San Pietroburgo, ma insomma le alternative non mancano. Immaginiamo ora di avere a disposizione un budget di diecimila euro per cento invitati. Bisogna volare più basso, non solo figurativamente. Con cento euro a testa possiamo organizzare una cena senza troppe pretese e magari allietarla con un accompagnamento musicale. Non saranno gli U2, ma un gruppo di professionisti locali sì. Oppure possiamo organizzare una cena a buffet riducendo i costi e poi portare gli ospiti a teatro. Con il trasporto a carico loro. Insomma, ci si può pensare, c’è da programmare, richiedere preventivi, ottimizzare, insomma c’è da lavorare e tanto, ma con competenza e un po’ di entusiasmo abbiamo la possibilità di fare bene. Cosa c’entra tutto questo con la Pubblicazione Amministrazione? Ebbene immaginate che il governo italiano dia ai funzionari l’incarico di organizzare un evento a New York per diecimila persone con il solito budget di diecimila euro. Anzi, lo decreti per legge. Vi sembra una follia? Sappiate che è quello che succede ogni giorno. A quel punto il ministro organizzerà una conferenza stampa per annunciare che si va tutti a New York, ci saranno strette di mano e applausi, elettori soddisfatti, quand’è che si parte. Il nostro solito funzionario di fronte ad una tale scemenza non comincerà nemmeno a lavorare. Vuoi andare a New York con un euro? Non chiederà preventivi né progetterà alcunché, al limite si darà da fare per produrre una relazione per spiegare come non è riuscito a raggiungere l’obiettivo. Qualcuno magari ci proverà, in attesa di un decreto milleproroghe che intanto rimandi tutto all’anno prossimo. I politici, di fronte al fallimento, sbraiteranno contro i fannulloni buoni a nulla e contro la burocrazia: loro hanno una vision chiara per il futuro, ma quei maledetti dipendenti pubblici li ostacolano. A quel punto prenderanno cinquantamila euro e li daranno ad una agenzia di amici, i quali prometteranno che tutto sarà fatto. Stamperanno qualche brochure ed effettivamente compreranno qualche biglietto, poi spariranno con il resto dei soldi che nessuno recupererà perché sono finiti ad una filiale a Panama. Il vecchio politico sarà sostituito dal nuovo, e si riparte. Se al posto dell’organizzazione dell’evento ci mettete la costruzione di un ponte, l’organizzazione scolastica o l’introduzione di un nuovo sistema informatico, il risultato non cambierà. Vogliamo fare qualche esempio concreto? Il progetto della carta di identità elettronica e la sua introduzione in Italia non è affatto recente. Solo che nella conferenza stampa il ministro dell’epoca dichiarò: carta di identità elettronica per tutti, basteranno venti minuti allo sportello. Bene, bravo, strette di mano. E però. Però quell’idea prevedeva che ogni sportello si dotasse di macchina fotografica digitale, spazio e competenze adeguate per fare una buona foto, e fin qui, tutto sommato, ci può stare. Però siccome il cittadino (elettore) deve avere tutto subito, bisogna che allo sportello dispongano di card elettroniche con microchip da programmare e restituire seduta stante, con tanto di foto impressa. Come no, New York. Alcune amministrazioni locali c’hanno provato, spendendo svariate decine di migliaia di euro per acquisire gli strumenti necessari. L’hanno fatto i comuni più grandi, riducendo però il numero di sportelli attrezzati, e alcuni coraggiosi pionieri. Hanno speso soldi per manutenere, riparare e gestire macchinari costosi e sofisticati. Siccome il ministro non poteva ammettere di aver fatto una enorme, clamorosa, indiscutibile cagata, ha cambiato fornitore, chiamato gli amici che hanno proposto di andare a New York con cinque euro, e intanto insultato e infamato la PA, quei dipendenti ottusi e privi di vision. Dopo molti anni ecco che ci si rende conto che il sistema non può funzionare, si dismette la vecchia carta di identità e se ne introduce una che, sensatamente, verrà stampata da un unico centro nazionale e non da 8 mila sportelli. Il povero cittadino elettore dovrà portare due fototessere da scansionare (burocrati vessatori!) non avrà la carta seduta stante, ma dovrà aspettare una settimana, con buona pace di quelli che si presentano allo sportello dopo l’orario di chiusura pretendendo il rilascio immediato, visto che hanno l’imbarco per Parigi dopo un paio d’ore. C’andranno in treno, in vacanza a Parigi. Sempre che non fossero diretti a Londra, perché in quel caso temo che servirà loro un passaporto, ma questa è un’altra storia. Altro esempio? Nel 2010 Tremonti stabilisce che ogni amministrazione (tranne la presidenza del consiglio) debba tagliare dell’80% le spese per la comunicazione istituzionale. Avete capito bene, ottanta percento. Bene, bravi. Con la cultura non si mangia. Poi un ministro nel 2013 stabilisce le linee guida per i siti web e decreta che, per rispetto dei diversamente abili (ne cito giusto un paio) tutti i video pubblicati dalla PA dovranno essere sottotitolati per i non udenti, e tutte le registrazioni audio dotate di trascrizione letterale. Non una sintesi, proprio la trascrizione. Una legge di civiltà, bravo ministro, così si fa, all’avanguardia in Europa. Poi il primo a non rispettarla è il ministro vicino di stanza, ma tant’è. Potrei continuare a lungo, aggiungo solo che il governo Monti prima e quello Renzi dopo (con il breve intervallo di Letta che in effetti un po’ di sale in zucca ce l’aveva, e s’è visto che fine ha fatto) sono in assoluto i campioni di questo delirante comportamento. Nemmeno Berlusconi osava tanto. Quando sentirete gli annunci del premier in tivù, ricordatevi dell’evento a New York. Il nostro predica l’informatizzazione delle procedure da tempo. Meno carta, digitale, velocità. Come dargli torto. Poi però nell’ultima legge finanziaria ha previsto una riduzione degli investimenti pubblici in informatica del 50% in tre anni. Perché l’uomo ha una vision ma anche capacità manageriali: a New York c’andremo tutti con cinquemila euro. E se i dipendenti non si adeguano li licenzieremo, o meglio li faremo condannare tutti per omissione di atti d’ufficio. Il loro ufficio è quello di fare miracoli. Che si adeguino.

Per colpa di chi

Una delle mie preferite leggi di Murphy dice che chi sorride quando le cose vanno male ha già trovato qualcuno a cui dare la colpa. Si tratta di un motto universale che però è straordinariamente adatto al modo di pensare italiano. Per anni siamo stati divisi tra quelli per cui la colpa di ogni male era da imputare al capitalismo e al consumismo occidentale, e quelli per cui all’origine di tutti i problemi c’erano i comunisti, il materialismo e i sindacati.

Venuti meni questi capisaldi dell’italico scaricabarile, sono emersi nuovi capri espiatori: se il nord non produce più non è perché i nipoti degli imprenditori dilapidano le fatiche dei loro nonni in festini, orge e macchine di lusso, no, la colpa è dei meridionali che ci rubano il posto in fabbrica. Versione che poi si è evoluta nel più moderno “prima gli italiani“: prima mio figlio che si alza alle undici di mattina ogni giorno, non si è diplomato perché a scuola non lo capivano e spende 500 € al mese alle macchinette al bar, poi i profughi che parlano tre lingue e per salvarsi hanno attraversato il deserto e il mare, loro sì causa dei nostri problemi.

La fine delle ideologie ha prodotto però il moltiplicarsi dei fronti: ci sono quelli per cui la colpa di tutto è ascrivibile a chi mangia carne (dall’inquinamento atmosferico alla crisi in Libia, e forse anche i fallimenti recenti della nazionale sono colpa del prosciutto cotto), quelli per cui i credenti sono la tana in cui si annida ogni cattiveria, mentre gli atei sì che sono persone per bene (e in effetti un ateo che per il bene di tutti avrebbe voluto estirpare tutte le fedi religiose c’era, peccato secondo alcuni che l’abbiamo fermato nel 1945 prima che potesse completare l’opera).

Ci sono poi i leitmotiv immancabili, come quelli che “fattura o sconto?” con il suv dichiarato come macchinario agricolo per i quali sono i maledetti salariati a rovinare l’Italia, con le loro ferie e i loro giorni di malattia, i signori che dimenticano sistematicamente di dichiarare un conto corrente milionario (che distratto, sa, lo usiamo poco) o un reddito (sì è vero abbiamo tre appartamenti in affitto, ma è solo per non tenerli vuoti e far cambiare l’aria) e quando devono accedere a benefici pubblici la colpa è sempre dei maledetti burocrati e dei dipendenti fannulloni che ostacolano i loro piani.

Va bene, mi arrendo, la colpa è sua, è nostra, è mia. Vi fa stare meglio? Vi fa sorridere? Bene. Sorridete pure. Almeno così quando le cose vanno male saprò distinguervi dagli altri e potervi mandare a quel paese senza perdere tempo in inutili fasi istruttorie.

Non si commissaria il dissenso

VIa Diaz a StatteHo lasciato Statte più di vent’anni fa ormai, ma quando ho saputo tramite la stampa e i social network che hanno commissariato la sede del PD, ho provato un autentico moto di stizza. Ma come si permettono? Ma chi? Ma da dove vengono questi? Sì perché io a quella sede ci sono affezionato.
Se dovessi raccontare un luogo per raccontare la mia giovinezza, con ogni probabilità lo identificherei in quel tratto di strada di via Diaz che dalla chiesa della Madonna del Rosario conduce alla sede dell’Arci di via Piave, quella che una volte per tutti era la “Casa del Popolo”. Si perché è lì che sono cresciuto, a metà strada tra la la chiesa e la casa del popolo, fisicamente ma anche idealmente, tra un incontro dell’Azione Cattolica e una partita di pallacanestro nella squadra dell’Arci. E quanto ci volle per convincere mia madre, credente e praticante, che A.R.C.I. stava per Associazione Ricreativa CULTURALE Italiana, e non Comunista, come temeva lei. Perché l’idea che suo figlio avesse in tasca una tessera da comunista la preoccupava non poco. Ma si convinse e mi lasciò giocare in quella squadra di basket, dove in effetti ci occupavamo di marcatura a zona e dai e vai e non certo dell’isolamento del compagno Trotsky. Mi lasciava anche frequentare la sede, con qualche gelato ogni tanto e qualche partita al biliardo, quel tavolo verde sopravvissuto miracolosamente alle mie stoccate sghembe, che con la stecca davvero non ho mai avuto un buon rapporto.
Sono cresciuto lì, tra la chiesa e la casa del popolo, e lì sono le mie radici e i miei amici, quelli che non hanno lasciato il paese e con il loro impegno politico hanno contributo a farlo crescere. Ho visto la criminalità distruggere la vecchia casa del popolo, quella rasa al suolo da un attentato dinamitardo che per fortuna non fece vittime, alla fine degli orribili anni ottanta. Ho visto gli operai e gli impiegati che dopo giornate di duro lavoro nel siderurgico o in ufficio sistemavano la nuova sede e la mettevano a nuovo. Li ho visti montare quella la copertura per dare un tetto ai dibattiti e agli incontri, ma anche al presepe più bello della Provincia di Taranto, mi spiace per gli altri ma è così. Li ho visti rimetterla in piedi dopo che il tornado ha cercato di portarsela via. Ho visto l’impegno in quei primi anni novanta quando ci si batteva per l’autonomia comunale e quelli che adesso pretendono di commissariare facevano di tutto per ostacolarla. Sì perché ho lasciato Statte da più di vent’anni ma questo non vuol dire che abbia perso la memoria. Ho visto l’impegno di un concittadino straordinario come Angelo Gigante porre le basi per una rinascita forse incompiuta, ma che gli sforzi di chi è venuto dopo hanno sicuramente cercato di realizzare. Negli ultimi anni Statte ha inaugurato un nuovo ponte e una nuova piazza oltre a parcheggi e strutture, anche se in tanti dopo aver lasciato cicche di sigarette e sporcizia in giro si lamentano perché nessuno le raccoglie prontamente.
Certo, alcuni mi potrebbero rimproverare, tu non vivi a Statte e ti permetti di intervenire nel dibattito politico. A costoro rispondo che non ho intenzione di influenzare il voto in alcun modo. Prima di tutto perché, non essendo residente, non voterò. Poi perché non conosco personalmente le persone che si candidano secondo il “nuovo corso”, chiamiamolo così, del PD, nato da quel Patto del Nazareno che da alcuni anni segna il destino politico dell’Italia. Sono convinto che siano persone interessate al bene della comunità stattese e, nel caso dovessero prenderne la guida, hanno tutto il mio rispetto e i miei auguri di riuscire.
Ma il commissariamento no, il commissariamento è un atto violento di cui i responsabili dovranno pagare le conseguenze politiche. Perché gli stattesi si sono liberati ventiquattro anni fa dalle moleste attenzioni della politica del capoluogo, e non hanno nessuna intenzione di vivere un déjà vu. Non sarà il commissario a prendersi quello che né le bombe della criminalità né la furia del tornado è riuscito a spazzare via.
Non si commissaria il dissenso.

Il mare è di tutti

mareIl mare è di tutti.
È questo che fa male a Crapulone e ai suoi.
Loro proprio non riescono ad accettare che dopo aver piantato la loro bandierina su castelli, ville, colline e campi, non possano farlo anche con il mare. È mio, dicono dell’oro di cui si sono impossessati, è mio, dicono delle ricchezze di cui hanno privato gli altri, è mio, dicono del cibo di cui si ingozzano e del vino che versano a fiumi.
Ma il mare no.
Del mare non sono ancora riusciti a impossessarsi, e questo dà fastidio a Crapulone e ai suoi, li irrita, di più, li fa imbestialire. Certo si è impadronito delle spiagge migliori, dei porti, delle imbarcazioni. Certo può fare il bagno in atolli lontani dove la plebaglia non può disturbarlo. Eppure non è contento, perché assistere impotente a qualche miserevole lavoratore che si immerge nelle acque del mare, senza nemmeno poter chiamare la polizia e scacciarlo via, è un autentico cruccio.
E allora ha deciso di prendersi anche il mare, Crapulone. Ha cominciato a trivellarlo, piazzando qua e là enormi piattaforme di estrazione. Sono sue, le piattaforme, ovviamente. E anche il gas, anche se un po’ ne lascia, bontà sua, anche per gli altri. Pazienza se sono brutte da vedersi, pazienza se allontano i turisti, pazienza se c’è il rischio che inquinino il mare. Tanto Crapulone e i suoi potranno sempre andarsene all’atollo. L’importante era piantare quella bandierina, perché la trivella altro non è che un enorme monumento all’ego di chi potrà finalmente dire “anche il mare è mio”.

Ci sono tante buone ragioni per votare sì al referendum del 17 aprile, quasi tutte migliori di questa. Più articolate, più scientifiche, più consistenti.
Io voto sì solo perché Crapulone mi sta sulle balle e finché la democrazia mi consente di ostacolarlo, porcaccia di quella miseria, lo farò.

A Valeria, e a tutti gli altri

candelaDomattina, appena svegliati, respirate a pieni polmoni provando ad avvertire l’ossigeno che vi riattiva la circolazione. Poi mettete un cucchiaino di zucchero in più nel caffè, annusando l’aroma prima di gustarlo.
E abbracciate i vostri cari, baciate chi vi ama, e fate quella telefonata che rimandate da tanto tempo. Mettete un po’ più di passione nel lavoro quotidiano, e non fatevi pregare per un complimento.
E trovate il tempo per una passeggiata al parco, o un brano del vostro musicista rock preferito. Fatelo per Valeria, per Mohammed e per tutti coloro che, a Parigi, Beirut o in ogni altro angolo del mondo hanno perso questo privilegio. Perché che voi siate cristiani, musulmani o atei, l’unica certezza è che questa vita è fragile e non sappiamo quando chiameranno il nostro nome.
Il modo migliore per rispondere a chi ci vuole terrorizzare è proprio riscoprirne la bellezza minuto dopo minuto.
Lo dobbiamo a Valeria e a tutti gli altri.