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Una notte al museo

Ecco uno di quei film che solleticano la parte infantile che è in noi e le regalano un paio d’ore di sano divertimento.
La storia è semplice: nel museo di storia naturale di New York (bellissimo, se avete l’occasione visitatelo, è un milione di volte più appassionante dei tristi cadaveri di animali impagliati europei) gli “ospiti” prendono vita di notte, e creano non pochi problemi al nuovo custode notturno, l’imbranato Ben Stiller.
Il resto sono gag a profusione (indimenticabile la “scemo scemo, dammi gomma gomma”: stupida ed esilarante come la vera comicità), effetti speciali accurati, ritmo ben gestito con pause e accellerazioni, attori che si divertono e si vede (oltre a Ben Stiller c’è un Robin Wiliams più in parte che mai, Owen Wilson, Mickey Rooney e tanti altri).
Il bello di questi film – ma quando impareremo a farli anche noi italiani? – è che riescono a essere divertenti senza essere volgari, a coinvolgere i bambini e gli adulti, a giocare con la storia e la cultura mantenendo comunque quel rispetto per i libri e i musei tipicamente anglosassone.
Ma soprattutto, adoro questi film per le reazioni snob che generano, perché mi divertono i commenti di chi li considerano bambinate noiose cercando di darsi un tono, di chi ne parla male per far capire che lui sì che ne capisce di cinema.
Ma il cinema, oltre che un arte, è anche un’industria: e sono film come questo che andrebbero studiati nelle scuole di cinema italiani, se vogliamo avere un futuro, altro che la Corazzata Potemkin (con tutto il rispetto per Ejzen?tejn, era solo per fare un esempio…)

Butchering the Beatles

Premetto che non sono un fan dei Beatles.
O meglio, li considero un gruppo straordinario che ha fatto la storia della musica leggera, se mi capita continuo ad ascoltarli con piacere, ma non sono un adoratore del quartetto di quelli che ricomprano venti volte lo stesso disco ogni volta che ne esce una versione con una nuova copertina e qualche fruscio in meno. E al tempo stesso, mi piacciono le cover: non quelle noiose che riproducono pari pari il brano originale (penso alle versioni in italiano dei successi esteri anni 60) di cui non si capisce il motivo di esistere, nè le cover che stravolgono, distruggono e reinterpretano per il gusto di farlo (penso alle versioni discoteca di certi brani rock o a Marylin Manson che massacra “The KKK Took My Baby Away” dei Ramones.
Mi piace chi si sforza di cogliere una delle mille sfaccettature che un brano può proporre e la esaspera, fino a darne un’interpretazione originale ma non discordante. La migliore cover di tutti i tempi, in questo senso, è “E ti vengo a cercare” di Battiato riproposta dai CSI, che ne sublimarono la spiritualità con tono intensi e lirici. Più bella dell’originale stessa, con i cori di Ginevra De Marco che mi mettono i brividi ogni volta.
Dunque, uno che non ama i Beatles ma apprezza le cover, cosa penserà di Butchering the Beatles? Che sono l’album più divertente degli ultimi mesi, che lo ascolterò fino a non poterne più, che persino una canzoncina senza infamia e senza lode come Lucy in the Sky with Diamonds, rivisitata dai Queensryche, diventa un pezzo potente vibrante di passione ed energia. Per non parlare di Lenny (Motorhead) che trasforma “Back in USSR” in una sferzata di entusiasmo e divertimento.
Ai fan dei Beatles non piacerà, neanche ai fan dell’Heavy Metal: i fan sono come delle chiese, o delle sette, non tollerano l’ecumenismo. Io invece penso che lo scambio culturale arricchisca sempre, e lo consiglio a tutti (tra i musicisti coinvolti nel progetto ci sono anche Billy Idol, Yngwie Malmsteen, Alice Cooper e membri di Motley Crue, Poison, Kiss, Whitesnake, Toto, AC/DC, Anthrax… e mi fermo qui prima che la nostalgia mi travolga).

Babel

Lento come una vecchia tartaruga che si sgranchisce le gambe, pesante come una pizza con uovo tonno e melanzane fritte, insopportabile come il conoscente che ti parla di gruppi afro-jazz-funky sconosciuti e di guarda sbarrando gli occhi quando affermi di non avere idea di chi diavolo stia parlando.
MI riferisco ad un un film, lento, pesante e insopportabile: Babel. Un film che è piaciuto tanto ai critici, e che infatti ha vinto a Cannes. Ma i critici di mestiere guardano film. Finito questo ne vedono un altro. Loro non hanno l’angosciante consapevolezza di aver sprecato due ore e mezza della nostra breve volatile vita aspettando una cacchio di ambulanza che non arriva mai in uno sperduto villaggio del Marocco.
Per carità, capisco che ai critici sia piaciuto. Già sento le loro vocì: osserva il lento movimento della macchina che accompagna il distaccamento dell’uomo e ne evidenzia lo stato confusionale. Apprezza il cromatismo così freddo e blu in alcuni momenti e così intensamento rosso e avvolgente in altri. Apprezza la fotografia che ritaglia i personaggi come se fossero sagome su uno sfondo che non gli appartiene. Cogli i riferimenti colti e incrociati che sottolineano i parallelismi tra storie di identità lontane e pure così intrinsecamente legate. E via discorrendo. BALLE.
Mi piace il cinema d’autore, un film può anche essere lento, senza però stritolare, maciullare e compirmere fino allo spasimo i testicoli dello spettatore. Ti sto dedicando due ore e mezza di vita, regista d’autore dei miei stivali, meritateli, invece di indulgere su un panorama desertificato come lo stato d’animo di un io distante che piace tanto ai critici ma a me mi fa cadere le braccia a terra.
E non solo quelle.

Mi fido di te

Già da Zelig si capiva come la comicità di Ale e Franz fosse una comicità fatta di scrittura, di gusto della citazione, di parola. Poche linguacce, poche caricatura, quasi nessuno – e questo è insolito per il cabaret televisivo – nessun tormentone.
Una comicità più adatta al cinema, come conferma “Mi fido di te”, secondo film della coppia, divertente e intelligente.
La storia è quella di un’amicizia tra un piccolo sfruttatore che vive di espedienti e un manager di una multinazionale appena licenziato che uniscono le forze per darsi alle truffe in grande stile. Sullo sfondo una Milano grigia di call center, precariato, lavori umilianti (quella dell’omino dell’acqua è una delle perle del film) e multinazionali di sciacalli che delocalizzano.
Ottimi anche gli attori non protagonisti, tra cui il vigilantes buono Marco Marzotta.
Unica pecca la regia di Venier che ostenta i suoi cliché (canzone di successo di sottofondo e sequenze senz’audio a sottolineare i momenti più intensi, ricorso alla voce fuori campo, macchina da presa diligente ma anonima) ma si conferma uno dei migliori autori quando si tratta di portare i comici televisivi al cinema: i migliori film di Aldo Giovanni e Giacomo portano la sua firma. Andate a vederlo: fidatevi

Le rose del deserto

Nel deserto arido dei Natali a New York, degli spezzoni televisivi riciclati e delle pernacchie iberiche, un maestro del cinema si erige maestoso regalandoci la sua rosa.
Mi riferisco all’ultima commedia di Mario Monicelli, Le rose del deserto, un piccolo gioiello d’altri tempi, un esempio da portare ai ragazzi nelle scuole dopo aver fatto vedere loro un cinepanettone, per fargli vedere la differenza tra il cinema e il pattume. Monicelli ci riporta alla campagna d’Africa dei primi anni quaranta, ad un gruppo di soldati che apprestano gli ospedali di campo nel deserto libico: tra loro la figura malinconica e affettuosa di Haber e quella straordinariamente comica di Placido in versione pugliese doc (ma di quella comicità che lascia un buon sapore in bocca come un buon bicchiere di vino, non quei frizzi e lazzi volgari come una bevanda gassata che ti lascia solo la voglia di ruttare).
Monicelli mescola i toni di dramma e commedia con una grazia e una naturalezza che purtroppo i giovani autori sembrano aver perduto, e si diverte a ridicolizzare la retorica fascista che qui si fa cinema e non sketch come in altri recenti e meno fortunati episodi. Bella anche la fotografia che non può ricorrere ad imperiose scene aeree di stampo hollywoodiano e tantomeno a campi lunghi maestosi (e costosi), ma tocca comunque il cuore di chi sa vedere.
Tutti in piedi ad applaudire il maestro. Signore e signori, questo è cinema. Tutto il resto è noia…