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Ucciderne cento per salvarne uno

Non c’è niente di più eccitante che poter violare una regola avendo un valido motivo etico e legale che giustifica a farlo.
 Lo sanno bene certi autisti delle autoambulanze che sfrecciano a 150 all’ora sui viali cittadini, stracciando i rossi rischiando collisioni ad ogni angolo.
Capisco che c’è una vita da salvare. La citazione dell’abusata espressione maoista, rivisitata per l’occasione, si riferisce proprio a questo. Però ce ne sono altre centinaia da non perdere, quelle dei pedoni e degli altri automobilisti che per sventura si trovano a incrociare il percorso di queste freccie volanti.
Signori miei, mantenete il sangue freddo altrimenti nell’ambulanza da trasportatori diventerete trasportati…

Mi fido di te

Già da Zelig si capiva come la comicità di Ale e Franz fosse una comicità fatta di scrittura, di gusto della citazione, di parola. Poche linguacce, poche caricatura, quasi nessuno – e questo è insolito per il cabaret televisivo – nessun tormentone.
Una comicità più adatta al cinema, come conferma “Mi fido di te”, secondo film della coppia, divertente e intelligente.
La storia è quella di un’amicizia tra un piccolo sfruttatore che vive di espedienti e un manager di una multinazionale appena licenziato che uniscono le forze per darsi alle truffe in grande stile. Sullo sfondo una Milano grigia di call center, precariato, lavori umilianti (quella dell’omino dell’acqua è una delle perle del film) e multinazionali di sciacalli che delocalizzano.
Ottimi anche gli attori non protagonisti, tra cui il vigilantes buono Marco Marzotta.
Unica pecca la regia di Venier che ostenta i suoi cliché (canzone di successo di sottofondo e sequenze senz’audio a sottolineare i momenti più intensi, ricorso alla voce fuori campo, macchina da presa diligente ma anonima) ma si conferma uno dei migliori autori quando si tratta di portare i comici televisivi al cinema: i migliori film di Aldo Giovanni e Giacomo portano la sua firma. Andate a vederlo: fidatevi

Quo vadiz, baby?

Salvatores torna al cinema di “genere” e questo è un bene per un cinema italiano che si inaridisce nei canoni ritriti della commedia. Il genere stavolta non è rischioso come per Nirvana di qualche anno fa (la fantascienza) ma è comunque impegnativo, il noir psicologico. Come al solito è un maestro nel muovere la cinepresa, nel dirigere gli attori, nel calibrare il linguaggio con toni ora drammatici ora ironici. Come spesso, però, ne è troppo consapevole, induce nella cinefilia, nel gusto della citazione autocompiaciuta, esagerando talvolta sino che scadere in passaggi di lirismo velleitario (soprattutto nelle riprese della defunta protagonista troppo velina per l’88 e quel suo insopportabile “Roma è come una pxxxxna, bla bla) e nella fotografia calligrafica a buon mercato (so benissimo mio malgrado che Bologna è una città piovosa e cupa ma questa sembra la Londra di Jack lo Squartatore).
Tra alti e bassi è soprattutto la sceneggiatura a incespicare: non ho letto il romanzo da cui il film è tratto, ma le coincidenze e i passaggi poco naturali sono troppi per farsi perdonare, e i colpi di scena sono imprevedibili come una pernacchia nei film di Pierino. In sintesi, caro Salvatores, bene la sperimentazione, bene gli attori (tutti bravi, dalla protagonista ai ruoli minori), bene le musiche. Bene anche aver visto tanti film e aver studiato tanto. Però non c’è bisogno di ricordarcelo ad ogni inquadratura…

Cuore sacro

Coraggiosa svolta di Ozptek che in “Cuore sacro” decide di immergersi nell’universo femminile e, come se questo non fosse già abbastanza rischioso, contamina questo viaggio con una riscoperta della spiritualità e del senso religioso. Dico subito che ad un progetto così ambizioso non corrisponde una piena riuscita: il film è girato bene, montato con sapienza e si avvale di un paio di momenti molto riusciti (in particolare il gusto “pasoliniano” dei lunghi primi piani degli umili, dei poveri, dei diseredati regala qualche emozione), ma la sceneggiatura barcolla, esita di passaggi e personaggi poco essenziali, tende a strafare. Il film ha tre “movimenti”: una introduzione in cui vediamo il mondo, asettico, freddo e spietato della protagonista; una fase centrale in cui ci viene mostrato l’incontro che cambierà la sua vita; un finale che ci racconta la redenzione e la nuova vita. Ebbene, la parte migliore del film, la seconda, è risolta in poche sequenze, belle e intense ma assolutamente compresse tra l’ipertrofica prima parte (basta una battuta, uno sguardo, a raccontarci di una donna in carriera, come ci hanno insegnato a Hollywood: invece il film indugia in riunioni, discorsi, relazioni, con un suicidio iniziale di due vittime dell’azienda “squalo” della protagonista assolutamente superfluo e inutile alla vicenda) e un finale che sembra non arrivare mai. Prima di arrivare alla conclusione (bella ma forse un po’ forzata, comunque non voglio rivelarvela), il regista si perde in un viaggio nelle miserie di Roma che gli sta a cuore ma rappresenta un freno alla storia, in una serie di sequenze dai toni religiosi esasperati (la citazione della pietà nella protagonista che raccolgie un vagabondo, lo spogliarsi francescano in metropolitano) che soprattutto, ripeto, non aggiungono niente: a quel punto ormai abbiamo capito che la protagonista è cambiata. Altra nota dolente i personaggi: a parte la protagonista, adatta al ruolo con quegli occhi tristi, e la ragazzina che l’accompagna nella parte centrale, tutto il resto risulta forzato e fuori luogo: la zia cattivissima è una Crudelia Demon solo un po’ più antipatica, il sacerdote è quasi ridicolo (un fotomodello che fa il prete operaio è veramente la peggiore cosa che abbia mai visto da Ozpetek), il personaggio del vagabondo matto sembra solo una divagazione fastidiosa.
Insomma, da un film intenso che poteva essere un capolavoro, un pasticcio a tinte fosche: l’impressione è che Ozptek abbia fatto tutto di testa sua, facendosi prendere dalla storia anziche dirigerla. E questo, nel cinema, non porta mai buoni risultati.

Contro lo sporco si fa presto

Il metro per valutare una pubblicità deve’essere l’efficacia, non la bellezza. Anche perché la prima si può calcolare in soldini per l’azienda, la seconda è soggettiva. Detto questo, ieri, mentre ero in fila in auto, ho guardato la reclame (parola d’altri tempi, ma in questi casi ci vuole) di un detersivo appiccicata su un autobus. Sempre meglio di quelle di biancheria intima che mi fanno sbandare, questo è sicuro. La reclame diceva più o meno “Contro lo sporco si fa presto. Con BIO PRESTO”, o qualcosa del genere. Sulle prime ho avuto un moto di incredulità: essendo la sera del martedì grasso, ho pensato si trattasse di un carro allegorico. Invece no, ho guardato bene, la pubblicità recita proprio così, non è neanche una rima come hai tempi di Calimero, è proprio una tautologia, con Biopresto si fa presto, già allora mi aspetto i prossimi con Svelto fai più svelto e quante coccole con coccolino. Queste pubblicità sono il frutto di investimenti miliardari, non è che a uno viene una idea e si fa, sono il risultato di analisi, studi, ricerche. Evidentemente il produttore ha analizzato, studiato, ricercato, ha caoncluso che il suo cliente è un babbeo, ed ecco la pubblicità come logica conseguenza? Ma io non voglio comprare un prodotto per babbei! PS Mi sono documentato.
La pubblicità è una citazione di uno slogan tradizionale di molti anni fa.
Molto chic, retrò, citazione colta.
Ah. Be’.
Allora….


Non mi piace lo stesso.