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Chiamo io o chiami tu?

Sotto l’ombrellone, mentre i bambini giocano sulla riva e la moglie prende il sole; a teatro, parlando a bassavoce per non infastidire troppo gli attori che, si sa, sono permalosi; a cena con gli amici. Sono solo alcuni dei casi in cui ormai nessuno più si scandalizza se osserva un uso quantomeno aggressivo del cellulare. Non c’è niente di male, direte voi. Infatti.
Se non fosse che sotto l’ombrellone si parla con lo zio, che abita al piano superiore e che si rivedrà dopo due ore; al teatro si racconta l’ultima novità al collega, in anticipo rispetto alla pausa caffé del giorno dopo; a cena con gli amici si chiacchiera al cellulare con altri amici. Non sto parlando di comunicazioni di servizio (ho lasciato le chiavi sul tavolo, vicino alla frutta), parlo di lunghe conversazioni.
E allora? Possibile che non si possa fare a meno di comunicare con persone con cui comunichiamo già tutto il giorno? Sarebbe bello se fosse possibile inserire un microchip che attiva le conversazioni solo se l’interlocutore è a più di trenta chilometri di distanza.
Negli altri casi, muoviti e parlagli di persona, imbecille.

E tu chi sei?

Era novembre, me ne stavo in pigiama alle prese con un sudoku tenace rosicchiando una penna a sfera rossa. Toni entrò con le sue scarpe sudice e un mozzicone di sigaretta, si tolse la giacca di pelle logora e la lasciò cadere sul divano prima ancora che potessi dirgli buonasera. Sempre che avessi voluto dire buonasera a quel sorcio.

Un colpo facile, spiegò masticando le parole che sapevano di vino in brick. La casa dei Rossi sarà
vuota, passano la notte di Natale in montagna. Ho rubato questi costumi in centro, quella notte nessuno farà caso a due babbi natale, vero compare? E l’allarme, gli chiesi soffiando sulla penna, non ci hai pensato? Avresti potuto rubare del prosciutto e due bottiglie, anziché quei costumi. Ma all’allarme ci penserai tu, il genio dei numeri, quello che è andato a scuola per un po’. Si trascinò nel tinello tirando fuori di tasca un uovo sodo.

Ero vecchio ma con gli allarmi me la cavavo ancora. Entrammo tranquilli e avremmo trascorso un Natale più ricco se improvvisamene non si fosse accesa una luce al piano superiore e Toni non fosse fuggito imprecando.

E tu chi sei? Da sempre mi ponevo quella domanda difficile durante le ore d’aria madide e nebbiose senza trovare risposte soddisfacenti. Non lo vedi? Risposi. Sono Babbo Natale. Allora è vero che esisti. Già. La mia amica Simona dice che sono i genitori a portare i regali. La tua amica è una sciocca. Adesso fa’ la brava e torna subito a letto. La piccola fece ciondolare un po’ la pantofola sulla punta del piede aggrappandosi al corrimano e squadrandomi. Mi chiese cosa volesse dire essere brava. Non lasciare mai la scuola, le dissi. Non scappare di fronte ai problemi. Non credere a chi ti dice che ci sono modi facili di guadagnare. E studia la matematica.

Mi sorrise, mi porse un foglietto e fuggì sulle scale senza voltarsi. Fu il mio ultimo colpo. Penultimo, se conta anche il pestaggio successivo a Toni. Uscii senza che i Rossi, che avevano deciso di restare in città, potessero svegliarsi, portando via solo quel biglietto preparato per me.
Ero sempre stato Babbo Natale e l’avevo capito solo a cinquantanove anni.

Buon Natale Carmine

Concerto (finch? non me ne sono andato) dei Piano Magic

Il chiostro di Santa Cristina a Bologna è una perla che si dischiude brillante e avvolge nelle sue mura secolari i suoi fortunati visitatori. Un autentico gioiello nel cuore di Bologna, la risposta più efficace al degrado e all’abbandono del centro storico. Il restauro del convento del XIII secolo convertito poi in caserma (ma come si fa?) è stato reso possibile dall’Università che ha investito alcuni miliardi per allestire gli spazi del dipartimento di Arti visive e alcune aule di Scienze Politiche al piano terra e per ospitare i documenti della Fondazione Zeri  e la biblioteca delle donne al primo piano. 1600 mq di area monumentale che è possibile visitare in questi giorni grazie ad una rassegna di musica intitolata “Julive”.
Personalmente ho partecipato alla serata d’apertura dedicata ai Piano Magic, band inglese presentata strepitosamente da City, il quotidiano gratuito, descritta come gruppo raffinato che riscopre sonorità psichedeliche anni settanta e le affida ad atmosfere sognanti e misteriose. Dopo tre quarti d’ora di fracassamento minuzioso e doloroso dei gioielli di famiglia ho deciso che il chiostro era bello, ma c’erano modi migliori di rovinarsi la serata: anche uscire in strada e fissare per un paio d’ore, che so, un segnale stradale sarebbe stato più vario ed eccitante di quello spettacolo. Intanto nel programma si parlava di musica acustica, e i nostri distorcevano elettricamente anche il loro respiro. Poi si parlava di canzoni, e invece il cantante, un tipo pelato con la testa enorme le braccia corte e le spalle a bottiglia, non ha fatto altro che biascicare lamentele al microfono come se qualcuno nel frattempo stesse cercando di impalarlo. Magari era vero, non c’era abbastanza luce per dirlo, ma certo la prossima volta ci penserò a lungo prima di seguire una recensione di City. Quasi ogni “canzone” (sempre gli stessi tre accordi di basso, avrei potuto suonarlo anch’io, schitarrate a casaccio e una batteria che sembrava lì per errore) era anticipata da un commento tipo “this song is very sad”. Ora, se sei pelato con la testa enorme e le spalle a bottiglia avrai delle buone ragioni per essere sad, non lo discuto. Ma, con tutto il rispetto per i tuoi problemi e tutta la simpatia verso chi fa spettacolo contro le regole dello show-business, devi proprio coinvolgere anche noi?