Archivi categoria: Gnius

Il futuro è Città 10

Le polemiche cittadine sull’istituzione a Bologna del limite di velocità a 30 chilometri orari sono superate, vecchie, inutili. Bisogna guardare avanti, guardare al futuro, osare, chiedere, pretendere di più.

E il futuro è Bologna città 10. Il limite di velocità infatti deve scendere ancora. D’altronde è provato che un impatto tra un’auto e un pedone a 50 km/h equivale a una probabilità di morte pari al 55%. Un impatto a 30 km/h può essere fatale “solamente” nel 5% dei casi. Un impatto a 10 km/h dà tempo al pedone distratto di scaccolarsi, spostarsi, nel caso appoggiarsi o sedersi sul cofano della vettura, liberarsi del prodotto interno lordo e riprendere a camminare con serenità.

Con città 10 sarà più facile trovare parcheggio, perché tutti andranno alla velocità di chi sbircia tra i marciapiedi per trovarne uno: non ci sarà più lo stress di quello dietro che ti suona, e maledette siano le Smart che sembrano sempre un posto libero e invece no.

Città 10 è anche l’occasione di apprezzare le belle ragazze che passeggiano, e seguirle in auto, senza correre il rischio di passare per maniaci: tanto a piedi vanno più o meno a 10 km/h anche loro. Ovviamente vale anche per i ragazzi.

Quante volte ci hanno ripetuto che non conta la destinazione, ma il viaggio? Finalmente è arrivato il momento di provarlo. Con città 10, una volta arrivato in ufficio dopo 3 ore, a quelli che ti chiedono com’è andata, potrai rispondere: è stato un viaggio! E nelle tre ore del tragitto di ritorno avrai tutto il tempo di finire quelle serie di podcast che com’è come non è non concludi mai.

Perché Città 10 è riscoprire le nostre origini, quegli anni in cui i nostri nonni caricavano il mulo con le granaglie e si avviavano pazienti verso la città, senza l’ansia e il logorio della vita moderna. Riscopriamo il mulo come mezzo di trasporto sostenibile, con Città 10 sarà finalmente possibile, con il ricorso anche ai cavalli quando necessario: carovane FlixHorse per i lunghi viaggi, calessi per raggiungere l’aeroporto, corriere che consegnano la merce trainate da possenti buoi.

Città 10 è una città più accogliente e inclusiva, con i bambini che giocano alla campana o con le biglie per strada e al limite si spostano quando passa qualcuno. Anche l’industria si adatterà, eliminando sia il cambio che il cambio automatico: con Città 10 basta la prima, tipo gettone dell’autoscontro, pigi il pedale e vai. A dieci all’ora.

Città 10 produrrà anche posti di lavoro, perché gli odiosi autovelox saranno sostituiti da artisti dell’Accademia di belle arti che ritrarranno le auto degli esagitati che vanno a 20 o addirittura 30 all’ora: non solo avranno infatti il tempo di prendere la targa, ma potranno anche realizzare agili schizzi da inviare incorniciati con la sanzione.

Taranto deve morire?

Dopo l’ultima accelerata tra le colline delle murge il treno aveva ormai intrapreso un’andatura più rilassata, con quel tipico “dlon dlon” delle ruote che stridono sulle rotaie che sembrano più vicine perchè si va più lenti. Un uomo sulla quarantina si alzò dallo scompartimento, si mosse incerto nel corridoio, andò verso un finestrino e lo aprì sorridendo. Una vampata di cattivi odori, mefitici, così disgustosi da chiudere la bocca dello stomaco invase il vagone.
L’uomo richiuse il finestrino soddisfatto e ritornò al suo posto con il sorriso sulle labbra, mentre il treno attraversava la stazione di “Cagioni”. Lanciò uno sguardo verso un altro viaggiatore che lo osservava interrogativo, e spiegò: “Quando sento questa puzza vomitevole, so di essere tornato a casa”.

Il rapporto tra Taranto e l’industria può essere sintetizzata da questa scenetta, cui ho assistito anni fa. Non si tratta solo di Ilva, perché anche il porto, la Cementir e la raffineria Eni non è che producano profumo di viole, però è chiaro che il siderurgico, grande due volte la città, fa la parte del leone.

I dati sono impressionanti e non voglio riportarli qui, migliaia di morti riconducibili all’inquinamento, decine di aziende agricole o legate all’allevamento costrette a chiudere per la presenza della diossina nei loro prodotti, allevamento dei mitili – uno dei gioielli di Taranto – in ginocchio, visto che un paio d’anni le cozze non sono più commestibili per la presenza di PBC velenosi, il turismo frenato dalla presenza di spiaggie meravigliose ma in tratti di costa non più balneabile.

Tutto ciò per i tarantini non è una novità. C’è un disegno geopolitico che risale agli anni cinquanta che vuole legare Taranto indissolubilmente al siderurgico e al porto militare, evitando qualunque altro tipo di attività che possa disturbare i manovratori di Roma. Questo perché l’acciaio serve, alle industrie settentrionali, che però rifiutano la puzza, e serve anche un porto militare pronto all’uso nel mediterraneo, di fronte al medioriente “bollente”.

Clini, il ministro per l’inquinamento ambientale, nel 2000 diceva ““La chiusura dell’altoforno e della cokeria delle Acciaierie è una questione urgente. Sul piano dei danni ambientali, dell’inquinamento e della salute dei cittadini siamo già in ritardo”. Peccato si riferisse a Genova. Chi se ne frega di Taranto, Taranto deve morire, sacrificato sull’altare della produzione nazionale.

Si calcola che in vent’anni siano più di  centomila i giovani e meno giovani che hanno lasciato la città cercando fortuna altrove. Dieci volte il numero di quelli che invece sono rimasti a lavorare nell’indotto dell’Ilva. Solo che di loro apparentemente interessa poco, così come interessa poco degli allevatori, dei contadini, dei miticoltori, dei malati oncologici.

L’azione della magistratura di questi giorni rappresenta una novità perché, per la prima volta da sessant’anni, dice che i tarantini sono cittadini come gli altri italiani. Non sono cittadini di serie B (magari: la squadra avrebbe conquistato la promozione ma poi è stata cacciata in serie D, ma questa è un’altra storia). Hanno diritto a industrie – siderurgiche, anche – che rispettino i vincoli ambientali e non semino morte, come in Corea, in Germania, Belgio.

La soluzione sembra ovvia, per una volta darebbe ragione persino al cerchiobottismo di Nichi Pendola (con i lavoratori ma anche con i padroni, con l’ambiente ma anche con la diossina, con la sinistra ma anche con la destra): i Riva sistemano il siderurgico e tutto torna a posto.

Io temo non sia così semplice. I Riva non sono “cattivi” che vogliono inquinare. Anche perché l’Ilva inquinava ugualmente, e forse di più, quando era pubblico. I Riva sono capitalisti e vogliono fare profitti, come chiunque si muove in questo mercato, e il mio timore è che se si dovesse rivelare vero che hanno corrotto politici e funzionari a destra e sinistra, spendendo un sacco di soldi, anziché mettere a norma lo stabilimento, è perché corrompere costa tanto, ma mettere a norma costa di più.

Il mio timore è che ripulire Taranto costi talmente tanto che i Riva cerchino solo un’occasione per liberarsene, e magari aprire in Cina o Brasile, dove ci sono più spazi da inquinare e una magistratura meno “invadente”. Si tratta di un timore, spero di essere smentito. Anche se mi domando se, con tutti quei milioni di euro per l’Ilva, non si potrebbero investire progetti per reimpiegare gli operai e dar loro un lavoro in altri settori. Chissà.

Intanto però l’Abramo tarantino ha condotto suo figlio Isacco sull’altare e si prepara a sacrificarlo. L’angelo grida di non farlo, che non è necessario, ma chi ascolta più gli angeli?
I ministri gridano più forte, e la puzza mefitica invade i vagoni.

“Gli anni folli”, mostra a Ferrara

Il fascino irresistibile della Parigi degli anni Venti rivive a Palazzo dei Diamanti attraverso le creazioni di grandi maestri : Monet, Matisse, Mondrian, Picasso, Braque, Modigliani, Chagall, Duchamp, De Chirico, Miró, Magritte e Dalí,  protagonisti di un periodo di eccezionale vitalità artistica che ebbe come palcoscenico Parigi all’indomani della Grande Guerra.

In quegli anni, che furono chiamati “folli”, i costumi liberali, il fermento intellettuale, il clima cosmopolita, i teatri, i caffè, il jazz, le gallerie attirano da ogni parte del mondo nella capitale francese musicisti, scrittori, coreografi, cineasti e artisti in cerca di fortuna e celebrità. Nella Ville lumière, novella mecca dell’arte, si respira l’aria di una nuova era, contrassegnata da un senso di libertà e da un desiderio di rinascita, che stimola la fioritura di un autentico laboratorio internazionale di idee e creatività.

Ho visto questa mostra che mi è piaciuta anche se non mi ha impressionato perché talvolta il filo conduttore che lega i vari artisti appare un po’ labile e perché la presenza non solo di dipinti ma anche di
sculture fotografie e soprattuto, costumi teatrali, appare un po’ forzata.

Rimane in ogni caso la lussuosa possibilità di una passeggiata variegata che si apre con Renoir e attraverso Modigliano e Picasso (mi hanno colpito molto le sue “maternità” finisce con il surrealismo e il dadaismo, una boccata d’ossigeno visto i tempi cupi per la cultura che viviamo.

[slideshow id=15]

Gli anni folli. La Parigi di Modigliani, Picasso e Dalí. 1918-1933
Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 11 settembre 2011 – 8 gennaio 2012.

http://www.palazzodiamanti.it/

Assenti perché in convention

Ci sono le feste, e poi i meeting, e poi i tradizionali congressi, e poi i convegni, le fiere e i raduni. Fateci caso, ma non c’è giorno che passi che non si assista in qualunque telegiornale al rituale della sala gremita a battere le mani a questo o quell’altro politico.
Un evento organizzato bene può costare dai centomila euro in su, E chi li paga, mi domando? Come mai queste forme di comunicazione dispendiose non vanno mai in crisi?
E poi, fateci caso, nessuno che parli mai di sè e dei propri errori, sempre pronti a puntare il dito contro gli altri. I politici parlano della crisi del commercio, i commercianti della crisi industriale, gli industriali parlano di qualunque cosa li tenga lontano dalla loro industrie. Ci avete mai fatto caso? La Marcegaglia critica la manovra del governo dal convegno dei produttori di dentiere usa e getta, la Marcegaglia dà un ultimatum al governo dalla fiera dei tessicoltori di alghe, la Marcegaglia chiede maggiore coraggio al governo dal meeting dei commercianti di perline.
Ma un giorno in azienda ci staranno mai questi industriali?
E soprattuto, una buona volta vorranno fareun po’ di autocritica, anziché prendersela sempre con gli altri? Si riempiono la bocca di meritocrazia. E già. Che azienda dirige la Marcegaglia? La Marcegaglia SpA. Ma che coincidenza, si chiama come lei! Sicuramente però il suo ruolo è solo legato al suo merito. E Marina Berlusconi, che rigide selezioni del personale ha superato per dirigere la Mondadori? E Lapo Elkann? Ha vinto un concorso che l’ha visto competere con altri centinaia di brillanti giovani per occuparsi del marchio Fiat?
Le aziende italiane spesso e volentieri danno l’impressione di essere strutture familistiche con una gestione del potere di stampo medievale che anziché domandarsi come mai la Apple non si chiami la “Jobs” sperano solo di sopravvivere riducendo pensioni e pausa pranzo.
Anzi, aboliamolo del tutto questo pranzo, tanto per loro c’è sempre il catering abbondante di qualche convegno…

Tutti pagano e pochi incassano

Sono tornato quest’estate a Marina di Ginosa, una delle più belle località di mare in provincia di Taranto, una delle poche a fregiarsi della bandierina blu quasi ogni anno. Ma non è stato il mare a colpirmi. E’ stata la villa comunale. Quell’angolo di verde che da bambino mi sembrava una foresta smisurata è rimasto lì, un polmone al centro del paese, eppure qualcosa è cambiato. Venticinque anni fa c’era un chioschetto al centro. Adesso una fetta di parco è adibita a giochi gonfiabili per bambini (gestiti da privati e a pagamento), un’altra è in concessione ad un albergo, al centro troneggia una enorme pista da ballo con bar, un altro bar ha conquistato un altro angolo (ricoprendo il suolo con moquette verde, agghiacciante). Insomma i privati stanno colonizzando il parco: un bene di tutti diventa fonte di lauti guadagni di pochi. E pazienza poi se si trovano anche rottami, spazzatura e angoli secchi. Mi sembra una metafora meravigliosa dell’Italia di oggi, in cui tutti dobbiamo pagare, ma poi ad arricchirsi con i beni pubblici sono i pochi furbi (vedi autostrade, energia, televisioni).
Mi va bene un sistema di mercato in cui un privato si costruisce un giardino e lo adibisce a bar, e mi va bene un sistema pubblico dove il giardino è accessibile a tutti. Ma un giardino pubblico in cui bisogna pagare il barista che se ne è appropriato -legalmente, ci mancherebbe –  proprio no.

Denti

Che Nicole Minetti avesse un titolo di igienista dentale lo sanno ormai anche in Kazakistan. Magari non sanno cosa fa l’igienista dentale (e neppure io: la pulizia dentale a me l’ha sempre fatta il dentista), magari se l’immaginano con un aspirapolvere, lo straccio e il collutorio, ma insomma, si sa. In tanti ricordano che anche uno dei più popolari “furbetti del quartierino”, anzi colui che usò per prima questa espressione, Stefano Ricucci, era odontotecnico, cioè più o meno era in grado di realizzare protesi dentarie. Adesso le cronache parlano di un’odontoiatra al centro del calcio scommesse, e l’odontoiatra in fin dei conti è un dentista.
Sia che puliscano, curino o ricostruiscano i denti, insomma, sembra proprio che i professionisti della cura della bocca spesso e volentieri si dedichinoad altro….