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Caramel

Abituati come siamo a immaginare le commedie ambientate a Roma, Londra o New York, potrebbe risultare a qualcuno sorprendente l’idea di vederne una girata a Beirut.
Una Beirut che per una volta non è macerie, morte e miseria, ma sfondo a suo modo romantico delle vicende che girano intorno ad un salone di bellezza. C’è la bella mora che vive un amore impossibile con un uomo sposato (scommettiamo che si ravvederà e scoprirà il vero amore?), c’è l’anziana donna che sacrifica tutta la sua vita alla cura di una madre inferma. E c’è la clinica che ridona la verginità a chi l’ha persa sulla strada del matrimonio.
Ma ci sono anche tematiche, come dire, più occidentali, come la ricerca del facile successo televisivo (tra i momenti più divertenti del film ci sono i protagonisti di una donna che non vuole accettare lo scorrere del tempo) o la negazione forzata della propria omosessualità. Il tutto intriso, va detto, di sapiente cinematografia francese che alterna con un montaggio accurato le varie storie e riesce a tenere viva l’attenzione con una fotografia colorata e una sapiente gestione della sceneggiatura, con la battuta simpatica al momento giusto.

Divertente e consigliabile. Onde evitare equivoci: il caramello del titolo non è la solita leccornia post Chocolat per conquistare gli uomini con la gola, ma un impasto che le donne orientali usano al posto della ceretta.

Il cane giallo della Mongolia

Ci sono film che meritano di essere visti per alzare finalmente lo sguardo dall’ombelico romanesco dei vari filmetti con l’amore nel titolo, dei soliti block-buster in cui ditruggono New York, dei film da ridere in cui ti senti escluso perché non fanno ridere per niente. Il film in questione (se interessati, si trova in dvd) sta a metà strada tra il documentario e la finzione, e ci mostra la vita di una famiglia di allevatori in Mongolia.
Una famiglia moderna, con i mestoli di plastica, il generatore di corrente e i quaderni da colorare, è alle prese con attività millenarie quali proteggere le pecore dai lupi, preparare il formaggio, portarle al pascolo. Nonostante i tempi siano dilatati e manchi quell’ossessiva ricerca del colpo di scena a cui ci hanno abituati i film occidentali, il film regala alcuni momenti di intensa commozione, grazie anche agli scenari maestosi e cupi della campagna mongola. Ma ci rendiamo conto che dall’altra parte del mondo ci sono bambini che a sei anni montano su a cavallo e conducono un gregge al pascolo, mentre i nostri sono capaci solo di accendere e spegnere la PlayStation? Riusciamo a considerare l’idea che esista – oggi, nel ventunesimo secolo – una vita priva di televisione, frigorifero e telefono?
Dal film si intuisce che anche in Mongolia questo modo di vivere sta lentamente scomparendo, e non è una buona notizia.
PS Il cane giallo della Mongolia fa riferimento ad una divertente leggenda buddista che ovviamente non vi svelerò qui.

Avantasia: The Scarecrow

Ho amato "Avantasia: the metal opera"  senza guardarne i difetti (struttura narrativa esile, luoghi comuni fantasy) ma abbagliato dalle qualità (epic metal di livello  elevatissimo, songwriting ispirato, arrangiamenti accurati): è così che si ama un disco, in fondo. Per questo, quando ho sentito parlare di un nuovo volume "Avantasia", i sono subito lanciato sull’acquisto, aspettandomi un nuovo capitolo della saga.
Disdetta e delusione.
Il nuovo cd di Tobias Sammeth  può sempre contare su collaboratori di livello, tra cui anche gli’ eterni Alice Cooper e Rudolph Schenker, la confezione del cd è di primo livello e contiene anche un dvd con i video, i musicisti sono signori musicisti. Però… però siamo a livello dell’ultimo Bon Jovi o anche peggio, pop rock fatto bene con venature progressive ma tutto lì. E i metallari che in passato hanno crocifisso Metallica, Bon Jovi e compagnia bella per le loro svolte commerciali, dovranno davvero arrampicarsi sugli specchi per giustificare questo Avantasia: The Scarecrow
Tobias afferma di essere stanco delle tematiche fantasy (e sputiamo nel piatto in cui mangiamo…) ma se per lui crescere vuol dire sdilinguirsi nella sdolcinatissima "Carry me over" che riporta alla memoria Carrie degli Europe, o al pop da disco di Lost in space, allora era meglio morire da piccoli.
Bella la traccia di apertura Twisted Mind, resta il fatto che di memorabile per i posteri rimarrà un’altra ballatona, "What Kind of Love". Tanto vale Bryan Adams, allora, che almeno piace pure alle ragazze.
Insomma un buon album, ma Avantasia era un’altra cosa.

Il posto dell’anima

Se qualcuno dovesse ritare fuori la solita storia del cinema italiano in crisi, chiedetegli se ha visto "Il posto dell’anima". Un cinema in crisi non produce storie così: attori straordinari (d’altronde, sono i migliori che abbiamo in Italia: Silvio Orlando,Santandrea, Paola Cortellesi, Michele Placido), fotografia mai banale senza scadere nel virtuosismo, regia sobria ma intensa, sceneggiatura perfetta. Si ride e si piange, si riflette e ci si indigna. Uno di quei film che scuotono gli amanti di cinema perché riescono a riportare in fermento razionalità e passione. Qualche difetto forse c’è, inutile nasconderlo, un po’ di retorica, qualche accelerrazione sul pedale del dolore (o del dolorismo), ma c’è anche il gusto dell’inventiva, della citazione, del racconto, una colonna sonora moderna ed indovinata. Se poi aggiungete la bellezza mozzafiato degli appennini, la provincia italiana più caratteristica e addirittura due capatine a Bruxelles e in America, capite che questo prodotto di certo non scaccia la crisi da solo, da di sicuro non ne è espressione.
Guardatelo.

La febbre del sabato sera

La maggior parte dei musical nascono già per essere interpretati in teatro: Grease o Jesus Christ Superstar, per esempio.

Altri, invece, sono storie scritte apposta per sfruttare delle canzoni di successo, come l’attuale Mamma mia, che sta avendo successo in questi tempi a Broadway e che è costruito sulle canzoni degli Abba, o la Febbre del sabato sera, che ho visto ieri al Teatro Auditorium di Bologna.

La differenza principale è che nel primo caso è indispensabile capire quel che dicono, perché la storia si sviluppa nei testi delle canzoni, nel secondo no. Ebbene, benché i veri musical siano i primi, mentre dei secondi si può al massimo dire che sono buone trovate commerciali, questi ultimi hanno il grosso vantaggio di poter essere prodotti in vari paese: traduci le parti in prosa, e lasci le canzoni originali. Il pubblico capisce la storia e tu non sei costretto ad abominevoli e ridicole traduzioni come nel caso del pietoso Grease in italiano.

Tutta questa lunga premessa per dire che nella Febbre del sabato sera le canzoni dei Bee Gees, di James Brown e degli altri protagonisti di quegli anni sono lasciate nella loro versione originale e ben interpretate, traducendo solo i dialoghi.

Il risultato è buono dal punto di vista scenografico, ottimo per le coreografie; peccato però che gli attori cantino su basi e non accompagnati dal vivo, una caduta di gusto imperdonabile. Non manca il personaggio televisivo, Stefano Masciarelli, simpatico anche se occupa un po’ troppo la scena a discapito dei veri protagonisti Simone Di Pasquale e Hoara Borselli.

Insopportabili invece i riferimenti al programma Ballando sotto le stelle, di cui lo stesso Masciarelli e il protagonista sono stati interpreti; va bene una volta, ma se si esagera si perde l’immersione nella storia. Bellissima Hoara Berselli, anche se per fare un musical bisognerebbe saper cantare. In conclusione, se volete risentire un po’ di musica anni settanta, con belle danze, non perdetevelo, un paio d’ore di divertimento sono assicurate.

Se invece avete amato l’originale e cercate riflessi di Brooklin o momenti di John Travolta, lasciate perdere: qui siamo a Trastevere, e oltre il ponte non c’è Manhatthan…

I Simpsons

La difficoltà di trasportare un prodotto di successo televisivo al cinema sta soprattutto nel tradurre un linguaggio tra due codici che solo apparentemente sono simili. Non mi riferisco solo alle dimensioni dello schermo (4:3 per la tv, 16:9 o anche più per il cinema), ma in generale al fatto che il cinema assorbe lo spettatore e lo conduce all’interno della storia come la tv, alle prese con gente distratta e disattenta, non potrà mai fare.
Non è un caso allora che Matt Groening c’abbia messo vent’anni prima di decidere a portare la sua famiglia gialla al cinema: i rischio era da una parte di fare tre episodi di fila su grande schermo senza aggiungere niente, dall’altra quella di tradire completamente lo schema originale (si pensi ai pessimi risultati, in questo senso, dei film di Scooby-Doo e Garfield).
Il film riesce nell’impresa: grazie ad un ritmo di gag impressionante, ad una straordinaria coralità dei personaggi (tutti i "comprimari", da Nonno Simpson ai Flanders, hanno il loro momento di gloria) ed alla solita maniacale cura dei testi ("io voglio solo che il giorno non mi faccia troppo male prima di tornare sotto le coperte con te, Marge), il film dei Simpsons è probabilmente il miglior film d’animazione degli ultimi tempi (almeno dal primo Shrek non ricordo niente di così divertente). Con qualche concessione all’animazione computerizzata (quei tipici effetti della camera in volo che i registi di film veri possono solo sognare) e al gioco di situazione (ricordate di essere al cinema: niente rutti e puzzette), il film scorre via senza un momento di noia.
Un consiglio: aspettate tutti i titoli di coda prima di andare via.