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Il morbo del “controlcismo”

Per esigenze lavorative ho dovuto fare delle ricerche d’archivio. Per carità, niente tuffo negli atti ottocenteschi, con la bella grafia dei funzionari che magari ci mettevano tre ore a scrivere che quel mattino era nato Vladimiro Puzzolezzo, ma lo scrivevano con la sacralità di un sacerdote del tempio. Una ricerca molto più vicina a noi, diciamo di una trentina d’anni fa.
Eppure così lontana.Tastiere  Control-C
Perché trent’anni fa le delibere venivano redatte con le macchine da scrivere.
Trent’anni fa i personal computer servivano a far giocare con il Sinclair SX Spectrum i ragazzini più fortunati, e sebbene non fosse così inusuale vedere di tanto in tanto un Olivetti con il monitor a fosfori verdi, non erano ancora stati massicciamente introdotti nella vita aziendale. Faranno il loro ingresso invasivo e fracassone nella pubblica amministrazione verso la fine degli anni ottanta. E se si guardano oggi quelle delibere si osserva un uso dell’italiano molto più pulito, netto, sintetico di quello di oggi. Perché ancora non si era diffuso uno dei mali delle società informatizzate, che con un brutto neologismo definirei “controlcismo”.

Trent’anni fa se dovevi perdere una mattina a battere a macchina una delibera li evitavi tanti fronzoli, tanti ghirigori che non conducono a niente, tante locuzioni pesanti. Oggi invece basta quella magica combinazione di tasti, control-c e control-v (non fate quella faccia, fruitori del mela-c: gli apple sono poco diffusi negli uffici della PA), ed ecco che centinaia di parole si riproducono e riempiono con quell’ammasso di segni espressivi il drammatico vuoto del livello contenutistico. Tret’anni fa scrivevi che serviva un armadio per la scuola e l’hai comprato. Oggi cominci citando dieci testi unici, la costituzione, la Bibbia e un paio di delibere dell’ente dal qual hai copiato l’atto e che ti sei dimenticato di cancellare, poi continui in pagine di delirio amministrativo fino a quando arriva alla parolina “delibera”, il lettore non ricorda più di cos’è che stiamo parlando e perché se le vita è così breve la sta sprecando leggendo una delibera.

Ma il controlcismo si è diffuso nella scrittura in maniera epidemica al di là della redazione di atti: centinaia di tesi, saggi o relazioni copiate o costruite incollando pezzi di provenienza diversa stanno lì a dimostrare che forse con il computer scrivere è più veloce, ma non è certo più facile. Alcune ricerche hanno dimostrato che con la diffusione dei personal computer la qualità delle tesi universitarie è calato, perché anche quando non si copia con il computer si comincia a scrivere prima di aver deciso COSA scrivere. Il giornalista una volta prendeva nota sul taccuino e rientrato in redazione butava giù il suo pezzo, adesso gironzola su Internet alla ricerca di un testo da depredare, chi vuoi mai se ne accorga. E non parliamo di certi romanzi in cui ad un certo puno l’editor taglia un capitolo, lo incolla cento pagine dopo e voilà, ecco a voi il colpo di scena destrutturato.

Anche in politica il control-c, negli anni della Grande e Infallibile Rete, ha generato mostri orrendi. Provate a guardare con occhio attento i commenti o i post sui social forum degli ultras più scatenati: le parole del capo, copiate e incollate, le ritroverete ovunque. Una volta le scarabocchiavano alla fermata dell’autobus, adesso sono sulle bacheche virtuali di amici e parenti. E quella volta che esprimono un concetto originale, si sentono in dovere di riprodurlo almeno su dieci piattaforme diverse.
Attenti, poveri fautori del controlcismo. Possiamo rivolgerlo contro di voi. Possiamo copiare il vostro testo, incollarlo in Google, e vedere quante altre volte ha ammorbato i lettori.E liberarci di voi, almeno virtualmente, perché chi copia e incolla continuamente prima o poi merita un control x. Tagliato.

Qualcuno dica alla Disney di piantarla con Violetta e di darci Castle

Immagine tratta da www.castle.rai.tv. Tytti i diritti ABC Studios riservati
Immagine tratta da www.castle.rai.tv. Tytti i diritti ABC Studios riservati

Ritengo che il prodotto culturale che meglio di qualunque altro identifichi gli ultimi dieci anni – su per giù – siano le serie televisive. Per carità c’erano anche prima, ma volete mettere? Vogliamo paragonare la sceneggiatura di Lost – che può piacere o meno, ma a cui non si può negare l’enorme lavoro creativo sui personaggi – con la psicologia da oroscopo di Branko “quello tosto del Vietnam e quello carino intellettuale” di Simon & Simon? Vogliamo paragonare l’introspezione interiore che anima Lilly di Cold Case e i suoi colleghi con i coniugi Hart di Cuore e Batticuore dove l’unica cosa davvero di spessore era la messa in piega della signora Hart?

D’altronde quelle serie anni settanta, per quanto ripetute fino allo sfinimento, le guardavamo su televisori 14 pollici in bianco e nero, di quelle attuali possiamo scandagliare ogni singola inquadratura con i mostruosi prodotti multimediali che popolano i nostri salotti. E a tal proposito mia figlia, da poco avvicinatasi a questo mondo, ha esordito con una delle mie serie preferite, Castle. Una piuttosto soft e adatta anche ad una bimba di 5 anni (e dai, per quanto possiate essere sconsiderati non farete mica vedere i bambini torturati e in catene di Criminal Minds ai vostri figli, spero). Certo qualche commento di tanto in tanto devo farlo, “Papà secondo me l’hanno pugnalata” “Martina il calibro 38 è una pistola, vuole dire che le hanno sparato”, ma mia figlia segue senza troppi intoppi la trama.

Martina però è figlia di una generazione abituata a rivedere i telefilm a piacimento, quando ne hanno voglia, così le ho preso la prima stagione in dvd. Dieci episodi già visti e rivisti più volte. Solo che siamo alla quinta stagione, e in dvd non c’è traccia della seconda! Non è questione di negozi, proprio non è mai stato prodotto in Italia. Non capisco sinceramente le logiche dei distributori (Castle è della galassia Disney), ma un programma trasmesso con successo su Sky e Rai Due cosa deve fare per essere disponibile nei negozi? Ci sono gruppi di Facebook che ne chiedono la realizzazione e addirittura raccolte di firme, ma la serie è disponibile in praticamente tutta Europa tranne che in Italia.
A proposito di Cold Case, ho scoperto per esempio che le difficoltà per l’uscita in dvd è legata alla colonna sonora (meravigliosa) che accompagna ogni episodio: i diritti costano tantissimo ai produttori, ma alla fine i dvd sono usciti. E Castle? Chi pretenderà i diritti su Castle? Per chi non l’avesse mai visto, non è tratto da un romanzo; anzi, hanno pubblicato tre romanzi tratti dalle serie. Per cui la cosa non si spiega. Chi si oppone alla distribuzione italiana? Avrà fatto qualche sgarro a qualche industria di caffé? Non credo, bevono caffé in continuazione, nel distretto c’è persino una macchina espresso comprata da Nick. Non lo so, per ora registro gli episodi su hard-disk e comincio a valutare seriamente l’ipotesi pirateria.
Nel frattempo qualcuno dica alla Disney di piantarla con Violetta e di darci Castle.

P.S. Ma se i vari protagonisti di Law & Order, Criminal Minds, Castle, The closer, C.S.I. e compagnia bella alla fine di ogni episodio risolvono il caso arrestando i criminali, com’è che quelli di Cold Case o Cold Squad c’hanno sempre così tanti arretrati?
Il motivo è semplice. I casi che devono risolvere sono di venti o trenta anni fa: per cui la colpa è del Tenente Colombo, dell’Ispettore Kojak e di Starsky e Hutch, e se posso dirlo, un po’ lo sospettavo, con quelle basette e quell’abbigliamento imbarazzante lo capivo anche da bambino che non c’era da fidarsi di loro e che chissa quanti casi insoluti si sarebbero lasciati alle spalle.

BatBeppe sconfigge per sempre la presidente della Camera Catwoman

catwoman
Immagine tratta da www.totalfilm.com. Tutti i diritti riservati Warner Bros,

Molti sanno che nei quotidiani e in generale nei prodotti di informazione i titoli non sono dati da dagli autori, ma da un redattore specializzato chiamato titolista. Il titolista è un giornalista di esperienza e dotato di particolare talento perché in poche parole deve richiamare l’attenzione, estrarre il succo di un articolo e soprattuto mantenere una linea coerente nel giornale. Perché se strilli e sbraiti in una pagina, strilli sempre, se invece evochi, citi e giochi, cerchi di farlo sempre per non disorientare il lettore.
Ebbene, una delle più divertenti strategie messe in campo dal Movimento Cinque Stelle è quelle di titolare in maniera, come dire, un tantino partigiana prodotti editoriali che non sono nemmeno i loro, ma recuperati da trasmissioni televisive. “Freccero ‘sistema’ Augias e loda i parlamentari M5S“. “Luigi Di Maio (M5S) svela le porcate del PD – Porta a Porta” “Alfonso Bonafede (M5S) inchioda la deputata del Pd” “Un MITICO Di Maio (M5S) DISTRUGGE a otto e mezzo un’ imbarazzante e ignorante Serracchiani (PD)“” Loretta Lupo (M5S), lezione di democrazia alla Boldrini“, e così via.

Provate a guardare i video, e vi accorgerete che o voi e il titolista avete visto due trasmissioni diverse, o davvero c’è un po’ troppo entusiasmo in quelle semplificazioni. Anzi, l’impressione è quasi sempre quella di ragazzi poco preparati che finiscono nel tritacarne televisivo a fare le vittime sacrificali di volpi ben più astute (ma questa non è una colpa, anzi, semmai la spiegazione del perché per anni Grillo ha impedito loro la partecipazione ai talk-show).
E dire che il M5S passa per essere quello dei fini conoscitori del web! Rischiamo di passare da un ventennio in cui abbiamo trasformato in “grande comunicatore” una politico (Lui) che al limite aveva grandissimo potere nella comunicazione (che è una cosa diversa), ad un periodo in cui questi ragazzi che fanno un uso talmente infantile di Internet da fare tenerezza si spacciano per strateghi della comunicazione multimediale.
Se vogliono continuare, allora, gli suggerisco di osare di più. Si potrebbe pubblicare un video di Italia-Germania 3-1 del 82, e titolarlo “La nazionale del M5S massacra undici tedeschi del PD”; oppure una bella scazzotata di “Altrimenti ci arrabbiamo” con Bud Spencer e Terence Hill da titolare “Due cittadini del M5S si sbarazzano dei burocrati del Parlamento”. E poi, la mia preferita: una scena da “Batman – il ritorno” del 1992 in cui “BatBeppe sconfigge per sempre la presidente della Camera Catwoman”.

Cioè… film di qualità, al Cinema Apollo

Se dovessi rappresentare la mia vita nella Bologna di metà anni novanta utilizzerei sicuramente alcuni posti come scenografia.

Perché ci sono ambienti che sono essi stessi interpreti di una storia. La mensa universitaria di via Barberia e le sue indimenticabili feste organizzate nello studentato, il bar da Mario sempre in via Barberia dove la sera c’era sempre musica progressive rock anni settanta in sottofondo, il Porto di Mare che ti dava l’impressione di essere in discoteca anche se non avevi i soldi per permetterla, il Depot di via del Pratello, un locale assolutamente psichedelico che purtroppo chiuse molto presto (non voglio indagare sul perché, i ricordi sono sfuocati e dire che bevevo poco per motivi economici). E ancora il Livello 57, il Link, il Teatro Polivalente Occupato. Tanta roba a cui dedicherò magari in futuro altri spazi nel mio blog (dipende dal numero di visualizzazioni). No, quella delle visualizzazioni è una battuta, non ci bado mai, anche perché basta inserire qualche nome noto a casaccio tipo “Maria De Filippi” “Belen” “Juventus” “Moana Pozzi” per ricevere click a dismisura di cui non me ne faccio nulla. Ecco, se siete arrivati su questo sito cercando Moana Pozzi potete anche chiudere la pagina, qui non c’è trippa per gatti, non la trippa che cercate voi insomma.

Tanta roba dicevo, ma per me la metà degli anni novanta volevano dire soprattutto una cosa: il Cinema Apollo.
cinema_apolloIl Cinema Apollo non era un cinema centrale: sorgeva nel quartiere Saragozza in una zona che ho frequentato solo finché c’è stato il Cinema Apollo, una zona che che aveva senso solo perché c’era il Cinema Apollo. Immaginate un tranquillo quartiere residenziale che la sera veniva invaso da centinaia di studenti universitari che discutevano di strutturalismo, cinema sovietico e di quei femminoni esagerati che frequentavano Scienze della Formazione (di quest’ultimo dettaglio discutevamo a dire il vero solamente noi ragazzi del collegio, era un collegio maschile e l’ormone ne risentiva).

La caratteristica peculiare del Cinema Apollo era che con 8 mila lire si vedevano 8 film. Con una programmazione che cambiava film ogni sera, riproponendo lo stesso film più volte nel corso del mese domeniche escluse, e la tessera che scadeva dopo un mese. Per cui, per non perdere nemmeno mille lire dovevi vedere almeno otto film al mese: il che non era un problema, perché io ci andavo due o tre volte la settimana, e ho visto film che o vedi a vent’anni al Cinema Apollo, o non vedi mai più. Al Cinema Apollo, gestito da un gruppetto di pimpanti ottuagenari, potevi richiedere il film da vedere lasciando un biglietto in una boccia all’ingresso, e un mio amico tutte le sere si ostinava a lasciare un biglietto con la sua richiesta per “Odissea nello spazio”, film difficile da proiettare persino per l’Apollo perché si dice Kubrick ne abbia fatto ritirare tutte le copie in circolazione.

Qualche inconveniente, a dire il vero, c’era: Pulp Fiction lo vidi in piedi in un corridoio affollato come l’autobus alle otto del mattino, perché il Cinema Apollo faceva il tutto esaurito praticamente ogni sera ma come negli Intercity che portano al sud non si negava mai l’accesso a nessuno. La fila si formava ben prima che il cinema aprisse, e se ci tenevi a stare seduto accanto quella ragazza che avevi invitato con tanta fatica, dovevi muoverti con largo anticipo. E comunque, invitare una ragazza all’Apollo era da idioti, lì avrebbe infatti trovato sicuramente qualcuno più interessante di te.

Altra peculiarità era la difficoltà di apprezzare lo schermo in basso a destra: lì infatti prima, durante e dopo il film un vecchietto operava con fornetto e tavolino per produrre popcorn a ritmo continuo. Perché erano i popcorn il vero business del Cinema Apollo, non i biglietti venduti. Era una specie di tavola calda dove per passare il tempo si guardavano i film.
O si ballava: per alcune settimane venne proiettato il Rocky Horror Picture Show con un gruppo di ragazzi che l’animava: all’ingresso ti davano il riso da lanciare durante la scena del matrimonio, un giornale da cui ripararsi dagli schizzi durante la scena della pioggia… si ballava il Time Warp tutti insieme mettendo sotto sopra la sala, ma quella non era una sala qualsiasi, quello era il Cinema Apollo, quello era il cuore pulsante della Bologna che fu.

L’avrete già capito, il Cinema Apollo ha chiuso anni fa, sostituito da appartamenti invenduti. E chi potrebbe mai acquistare appartamenti costruiti deturpando il tempio della giovinezza? Sarebbe come comprare un appezzamento di terra liberatosi dopo aver abbattuto il Colosseo, o un appartamento con garage costruito sul bagnasciuga di Lipari. Poi secondo me quegli appartamenti sono posseduti dagli spiriti non di defunti, ma di personaggi cinematografici indegnamente sfrattati: provate voi a svegliarvi nel cuore della notte e trovarvi di fronte Mister Orange sanguinante o Kika che vi riprende con la sua videocamera in testa.

Il cinema non ce più, ma da qualche parte nelle fondamenta ci sono ancora i bigliettini con i film che quei ragazzi avrebbero voluto vedere e forse avranno visto o vedranno, ma non al Cinema Apollo.

Utenti Android, iOS e WindowsPhone

loghi_smartphoneL’utente Android entra in un ristorante e chiede acqua del rubinetto.
L’utente iOS entra in un ristorante e chiede acqua oligominerale con un retrogusto lievemente frizzante e  una temperatura compresa assolutamente tra i quattro e i dieci gradi
L’utente WindowsPhone entra in un ristorante ma ordina solo superalcolici.

L’utente iOS vorrebbe uno smartphone con il miglior sistema operativo.
L’utente Android vorrebbe uno smartphone privo di sistema operativo.
L’itente WindowsPhone si domanda cosa diavolo è un sistema operativo?

L’utente Android sogna un mondo dove tutti hanno uno smartphone.
L’utente iOS sogna un mondo dove una persona sola ha uno smartphone. Lui.
L’utente WindowsPhone sogna un mondo dove a quello schermetto luccicante si aggiunge tastiera, mouse e stampante e si torna a lavorare come cristiani.

L’utente iOS non si perde mai perché ha un potentissimo navigatore a pagamento
L’utente Android non si perde mai perché ha un navigatore sviluppato dalla community che non conosce le strade di montagna ma ti fa conoscere un sacco di persone interessanti.
L’utente WindowsPhone non si perde mai perché ha memorizzato il numero di un amico che ha sempre un Tuttocittà a portata di mano.

L’utente Android fa migliaia di foto e le condivide online tramite i social.
L’utente iOS fa qualche foto distrattamente perché non scherziamo le foto le faccio con la mia reflex da 1000 euro.
L’utente WindowsPhone ha fatto 24 foto poi si è fermato perché non ha ancora capito come si cambia il rullino.

L’utente Android si ferma all’Autogrill e usa la toilette.
L’utente iOS si ferma all’Autogrill, usa la toilette e compra qualche sciocchezza perché i servizi si pagano.
L’utente WindowsPhone non ha bisgono della toilette perché ha già fatto nell’aiuola dietro il parcheggio dell’Autogrill.

L’utente Android è soddisfatto perché il suo smartphone ogni notte fa da solo il backup dei dati personali e li salva nel cloud computing.
L’utente iOS è soddisfatto perché il suo smartphone  fa pendant con la sua giacca nuova.
L’utente WindowsPhone è soddisfatto perché il suo smartphone ha una calcolatrice che non sbaglia nemmeno una moltiplicazione.

L’utente Android ordina le pizze d’asporto usando Google per conoscere le recensioni migliori
L’utente iOS ordina le pizze d’asporto usando Google per vedere se ci sono nuovi concorrenti ma poi ordina sempre dalla stessa.
L’utente WindowsPhone ordina le pizze d’asporto usando Bing e non capisce perché si ritrova sempre a mangiare sushi o kebab.

L’utente Android quando leggerà questo post penserà che è abbastanza divertente.
L’utente iOS quando leggerà questo post commenterà che è disdicevole e grossolano.
L’utente WindowsPhone quando leggerà questo post penserà che è divertente perché non ha ancora capito che è lui l’utente WindowsPhone.

Mockumentary, che paura

Un particolare della locandina. Tutti i diritti sono della produzione
Un particolare della locandina. Tutti i diritti sono della produzione

Se oggi mi occupassi di comunicazione a livello accademico sicuramente sarei interessato al mockumentary, e in particolare a quello che fa uso di falsi found footage. Se infatti la semiotica è una teoria della menzogna, quale migliore strumento per decriptarne i meccanismi?
Ma per fortuna io non sono un professore e quindi scendo precipitosamente di livello esibendomi in questo post.
Intanto chiariamoci subito: dietro i paroloni anglosassoni che ho sparato per darmi un tono c’è una pratica che non è per niente nuova nell’ambito della creatività umana.

Il mockumentary infatti altro non è che un documentario falso, e il found footage è quel genere cinematografico caratterizzato dal montaggio di spezzoni di altri filmati. Vi ricordate i Promessi Sposi? O se avete ripudiato gli studi scolastici, avete letto Cervantes? Ebbene, in entrambi i casi (ma fu Manzoni a ispirarsi a Don Chisciotte, essendogli posteriore) il romanzo si basa sulla trascrizione di un presunto manoscritto ritrovato dall’autore. In fondo si tratta di un innocuo gioco letterario, un espediente attraverso il quale l’autore giustifica una ricerca stilistica non attuale, e prende la distanza dalla storia per avvicinarsi astrattamente al lettore, che finge di affiancare nella lettura di questo manoscritto ritrovato. Nessuno ci crede da vero, e tutto finisce lì. Nel mockumentary però le cose stanno diversamente. Il mockumnetary infatti dichiara di essere vero, e spesso fa uso di trovate commerciali che rafforzino questa impressione. L’esempio forse più famoso è The Blair Witch Project, la storia di tre ragazzi che fanno una brutta fine in un bosco (ops, che brutto spoiler) ricostruita partendo da presunto materiale ritrovato. Materiale falso, che però un abile campagna pubblciitaria che anticipa l’uscita del film fa credere vero. Complice la facilità di diffusione delle bufale tramite il web prima e in maniera esponenziale con i social network poi, il giochino funziona maledettamente bene. Sia perché siamo abituati a credere al paratesto che anticipa e chiude il film (quello per intendere che sottotitola “Tratto da una storia vera” o che alla fine del film ci racconta come hanno continuato la vita i personaggi). Sia perché il cinema è sospensione dell’incredulità, e allargarla un po’ al di là dei confini tradizionali in fondo ci piace.
Un caso più recente di mockumentary è “Il quarto tipo”, altro film horror che a parte una sceneggiatura sgangherata con un paio di momenti di ridicolo involontario, porta all’esasperazione in maniera interessante questo concetto. Basato su studi documentari, recita già la locandina. Un altro horror, che racconta di rapimenti da parte di alieni, perché in effetti le finte immagini di repertorio recuperate, con i colori slavati di un vhs e l’inquadratura un po’ sghemba mettono decisamente paura. Mi fanno paura certi superotto anni settanta di parenti e amici, figuriamoci uno costruito per spaventare. Ma la domanda da ricercatore, se fossi un ricercatore – e qui ci infilo anche una riflessione morale e forse moralistica – è: è corretto tutto ciò? In altre parole, è giusto ingannare lo spettatore in maniera così spudorata? Ci deve essere un confine oltre il quale dire: ok, finora abbiamo scherzato, adesso siamo seri? Io credo di no perché porre limiti all’arte è inutile oltre che rischioso, eppure il dubbio, silenzioso, strisciante, rimane. Non è che a furia di guardare documentari falsi, ci verrà il dubbio che anche quelli su Auschwitz, per dirne una, siano costruiti? Non è che, abituati al cinismo con cui guardiamo il filmato dell’uomo sulla luna (un caso straordinario di mockumentary), finiremo per non credere nemmeno a chi racconta, a rischio della propria vita, i conflitti in giro per il mondo?
Non lo so, non voglio trovare risposta. Ma se c’è qualcosa che davvero mi ha angosciato de “Il quarto tipo” non è l’innocuo lungometraggio, ma o spaventoso dibattito che si è aperto tra le persone sane di mente che hanno visto un film mediocre e chi sostiene che è tutto vero e che sono la CIA, gli uomini in nero, il complotto sionista e i templari a tenerci tutto nascosto perché noi non dobbiamo sapere. Ecco, sono quelli lì che mi spaventano davvero, non i mockumentary.