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Con gli occhi rivolti al cielo

Non ricordo se ero in quarta o in quinta elementare. Avevo invitato i miei compagni di classe (da noi, cultura tardodemocristiana, si chiamavano amichetti) a festeggiare il mio compleanno. Come mio solito avevo già pregustato la festa, organizzato l’organizzabile e immaginato divertimenti indescrivibili a parole (robe proibite tipo un due tre stella in salotto e cacce al tesoro machiavelliche con enigmi comprensibili solo a me). Tutto era pronto, i dolci, gli addobbi, mancavano poche ore, ero in fibrilazione…Nevicò, e non venne praticamente nessuno. La neve a Statte è rarissima e come tale blocca ogni forma di vita generando panico e apprensione. Niente festa, dunque. Sono passati più di vent’anni, da allora, e ancora mi ritrovo a guardare il cielo e a chiedermi che scherzo mi combinerà. Un’altra nevicata non sarebbe poi neanche insolita, qui a Bologna. Ma stavolta i miei amichetti hanno la macchina, ho fiducia che ce la faranno. E intanto scruto il cielo.

Il tappo sopra

Bagno schiuma con il tappo capovoltoPerché i designer, gli ergonomi e gli scienziati dell’immagine ad un certo punto hanno deciso che le bottiglie degli shampoo e dei bagnoschiuma devno essere capovolte, con il tappo sotto largo? Perché sono più belle? Perché sono più comode da usare? Perché si appoggiano meglio sugli mobiletti infidi e scivolosi dei bagni? Perché danno bella mostra di sè sugli scaffali dei supermercati?

No, la ragione è un’altra. La ragione è che questo sistema demente mette in difficoltà i furboni come il sottoscritto che non solo si accorgono di non avere preso il bagnoschiuma dal mobiletto prima di essere entrati in doccia, ma fanno una fatica incredibile a dosarlo, si innervosiscono, lo agitano, e finiscono inevitabilmente per rovesciarsene un terzo sui piedi tra improperi e volgarità irripetibili. Il tappo sopra, il bagnoschiuma sotto. Oppure non vi compro più, e mi lavo col caro vecchio sapone della lavandaia.

La soglia psicologica

Gesù a trent’anni decise che era venuto il momento di fare sul serio, appese il martello al chiodo, chiese a Giuseppe il TFR e partì per il suo viaggio.

A trent’anni i giocatori comprendono che il tempo di giocare sta per finire, se sono bravi cominciano a mostrarsi in giro in giacca e cravatta per convincere il presidente a riciclarli come dirigenti, se sono scarsi iniziano a commentare i fatti della giornata in qualche emittente privata.

A trent’anni anche le letterine si sposano.

A trent’anni quando guardi una donna non pensi subito a come starebbe in costume da bagno, ma ti domandi se sa fare le lasagne al forno. A trent’anni le donne non hanno più bisogno di mostrare le curve per sedurre, ma semmai devono nascondere quelle di troppo. Trenta, come i giorni del mese, trenta come la percentuale di stipendio che se ne va in tasse.

A trent’anni ti chiamano signore quando chiedono un’indicazione, e non sei più obbligato a cedere il posto in autobus. È già tanto che qualcuno non lo offre a te. A trent’anni sei grande, hai superato la fatidica soglia: il tuo stipendio è rimasto di là, lui è ancora junior, chissà per quanto tempo lo sarà, è bello sapere che una parte di te rimane giovane. Sul retro di copertina del mio libro c’è scritto che sono nato vent’otto primavere e mezzo fa. Sul prossimo, semmai il mio editore avrà il coraggio di pubblicarlo, ci sarà scritto che ho trent’anni: li compio fra qualche settimana.

Non sarà un libro comico: cacchio, come fa un trentenne a scrivere un libro comico?

Auto servizio

Hanno cominciato i ristoranti, credo: niente più cameriera sorridente che annota i tuoi ordini sul blocchetto, ma lugubre fila indiana con vassoietto da influenzato, niente più sorpresa all’arrivo del piatto ma cibi esposti al pubblico ludibrio, niente più caldo o freddo ma solo diffusa e grigia tiepidezza. Niente più menù da sfogliare ma lavagnetta impositiva e scolastica all’ingresso, niente più tovaglia ma fogliastri di carta, niente richiesta del conto perché qui paghi prima di mangiare (furbescamente, perché se prima mangi poi ti passa la voglia di pagare). All’inizio si risparmiava, qualcosa, forse, hanno fatto fuori le tavole calde, adesso costano più di quelle. E poi il fai da te (come lo tradurreste? Auto-servizio? Sa di concessionaria) si è diffuso ai benzinai (trovate a Bologna un benzinaio che lavora in questi giorni di freddo: se ne stanno tutti rintanati nei loro gabbiotti a svernare, col cartello self-service esposto). Ammetto che è egoistico e un po’ malvagio pretendere che uno prenda il freddo per rifornirti mentre tu te ne stai al caldo in auto a sentire la radio, ma sono disposto a pagare questo servizio, in fondo quasi tutti siamo pagati per fare robe che gli altri non vogliono fare gratis…Ma qualcosa scricchiola. E già. Proprio nel regno del self service, nei supermercati dove la spesa la fai da solo senza l’aiuto di commessi e negozianti. E sì perché sempre più spesso nel reparto ortofrutta la merce non la pesi più da te: c’è l’addetto. Si saranno accorti che c’era gente che teneva sollevato il sacchetto mentre pesava. Oppure si saranno accorti di quelli che pesavano l’anguria e attaccavano l’etichetta a cinque chili di ciliegie. Oppure, semplicemente, si sono resi conto di quanto costa la frutta, e hanno deciso di non lasciarci soli con quel ben di Dio: gioiellerie fai da te ancora non ne fanno…

Maledetto antitaccheggio

Il titolo non vi spaventi, non sono un cleptomane (termine che molti italiani hanno scoperto grazie ad una canzone recente senza peraltro comprenderne il significato), capisco che ci siano strumenti per prevenire i furti nei supermercati. Come per esempio quelle placcone di plastica avvinghiate agli indumenti, quelle che di solito le commesse non sanno sbloccare e che se non fate attenzione vi ritrovate nel guardaroba ancora avvinghiate alla giacca. Ce le avete presenti? Staccarle è impossibile, indossarle fa più grattino (vedi cleptomane) che punk e se avete perso lo scontrino non potete neanche portarle indietro, rischiereste una denuncia. Ma non divaghiamo. Di placche, adesivi, custodie, ce ne sono anche sui cd. Il problema è che chi le appone non si pone minimamente il problema di dove le infila: il risultato è che leggere la track list di un cd è praticamente impossibile, diventa difficile scoprire l’anno di pubblicazione, per non parlare dei maledetti codici a barre sulle quarte di copertina, che impediscono di leggerne i contenuti. Perché non ci guardate, prima di appiccicarli? Un libro non è un pigiama! Per leggere la quarta di copertina di un libro che mi interessava in un ipermercato ho dovuto prenderne cinque, leggere una riga da uno, una dall’altro (gli impiegati per fortuna appiccicano gli adesivi a casaccio, mai nello stesso posto), recuperare le parole mancanti da un altro ancora. Alla fine ho deciso di comprare il libro. In libreria. Non mi sognerei mai di comprare un libro con una patacca collosa sulla quarta di copertina…

Per le lettrici le dimensioni contano

L’altro ieri chiacchieravo con l’edicolante del Centro Lame, una persona molto cortese che ha deciso di vendere alcune copie del mio romanzo (vendute 13 su 15, ma non fa testo, le hanno comprate tutte i miei colleghi). Mi ha consigliato di scriverlo un po’ più lungo, la prossima volta: una ragazza si è lamentata di averci messo mezz’ora a leggerlo tutto. A parte il fatto che io mi lamenterei dei romanzi che non sono riuscito a completare o che ho completato in dieci anni, e non di quelli che leggo in poco tempo; però la faccenda mi ha fatto riflettere. Si perchè gli autori vorrebbero scrivere, scrivere, scrivere, non si risparmiano, sapete: sono gli editori che (giustamente, dal loro punto di vista) tagliano, tagliano, tagliano. Anche Bello dentro ha subito un bel po’ di dolorose ma necessarie sforbiciate. Che dire, alla ragazza che ha letto il mio romanzo in mezz’ora? Nella quarta di copertina avevamo azzardato un paio d’ore di lettura piacevole, in effetti 30 minuti sono proprio pochi. Prometto che il prossimo romanzo arriverò a scrivere 600 pagine. Almeno 200 dovrebbero pubblicarmele, no?