Rubini torna ancora una volta nella natìa Puglia teatro di molta della sua produzione cinematografica per ambientare "La terra", forse la sua opera più matura. Accanto alla capacità registica di raccontare il paesaggio con inquadrature che sottolineano senza marcare troppo il territorio e alla indiscutibile capacità di guidare gli attori (persino Violante Placido in passato è sembrata un’attrice sotto la sua direzione), finalmente Rubini trova anche una sceneggiatura solida, che ha ritmo, i tempi giusti, e non sbanda mai come talvolta accadeva nei film precedenti. La storia è quella di un professore che da anni vive a Milano che torna a casa, a Mesagne, per quella che sembra una formalità : la vendita della proprietà dei genitori, la terra del titolo, appunto.
Il bravo Bentivoglio da solo è sintomo di serietà del progetto, poi qui è accompagnato da un gruppo di bravi attori tra cui quell’Emilio Solfrizzi che dà il meglio di sè quando può tornare a esprimersi con la comicità un po’ amara alla Sordi che è nelle sue corde, libero dallo sforzo di coprire la mimica e l’accento che invece caratterizzano alcune sue nefandezze televisive. Indovinatissimi gli elementi di contorno (la politica ridotta a farsa, la religiosità un po’ magia un po’ superstizione, la piccola odiosa malavita di periferia, il volontariato come unica possibilità di riscatto dell’uomo di oggi), il film sarebbe stato perfetto se non fosse stato per una post-produzione apparsa un po’ distratta: il montaggio non è esente da errori ma soprattutto il commento musicale è troppo carico, ridontante, ossessivo, fastidioso. In alcuni momenti verrebbe voglia di abbassare il volume.
Ma siamo al cinema e il telecomando, purtroppo o per fortuna, non c’è.
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The interpreter
Non è facile coniugare un thriller che rispetta fedelmente i canoni del genere (ritmo, suspence, intrigo) con un tema sociale di difficile gestione come la situazione politica in certi stati africani. Ci voleva il genio di Pollack e la bravura di due attori del calibro di Sean Penn e Nicole Kidman (quest’ultima molto più a suo agio nel ruolo di terzomondista impegnata e idealista che in quella di femme fatale che le hanno affibbiato ultimamente). Penn è una maschera di sofferenza e rabbia soffocata, capace di raccontare con uno sguardo a mezz’asta la disillusione di un uomo ad un bivio; la Kidman è bella come sempre ma anche misteriosa e affascinante. Un film da vedere, insomma, in cui niente è scontato (e mi fermo qui per non fare dello “spoiling” come si dice adesso), e la cura maniacale dei dettagli realizza un affresco che si dipana davanti a noi un po’ per volta lasciandoci, negli ultimi passaggi, un briciolo di sana incaxxatura, come ogni film che racconta una realtà scomoda dovrebbe fare.
Parole d’amore
Uno che al cinema va a vedersi un film che si chiama "Parole d’amore" un po’ se le va a cercare. In effetti. Ovviamente non volevo vederlo, sono stato trascinato da una serie di eventi contrastanti e dalla necessità di non imporre sempre i miei gusti cinematografici. In altre parole, ogni tanto è giusto sorbirsi una cavolata, per il gusto di poterlo rinfacciare a chi te l’ha imposto.
Ma qui siamo anni luce oltre i confini della cavolata, qui siamo al festival dell’insopportabile, al circo della noia, cavalchiamo le onde del mattone indigesto che atterra con violenza a frantumare i gioielli dello spettatore. Mi aspettavo una lagna tipo Se scappi ti sposo, questo va oltre il ridicolo involontario.
La storia: un professore di cabala figo (Richard Gere, che però in una insulsa scena di sesso conclude il rapporto il 5 secondi e delude perciò anche le fan più oltranziste) ha due figli antipatici. Il maggiore è un secchione che trasuda boria, la minore ricorda il protagonista del Sesto senso, solo che quello aveva lo sguardo stralunato e la voce sottile perché vedeva i morti, questa ce l’ha solo per irritare gli spettatori. Il primo scappera con una hippy bionda con gli occhi azzurri che frequenta una comunità tibetana (tutto molto credibile), la seconda vince gare di spelling. Il problema è che gli autori hanno sciaguratamente deciso di tradurre queste gare: ma mentre può anche risultare appassionante per un americano sapere come si scrive correttamente botany per un italiano lo spelling di origami è semplicemente demenziale. La moglie del professore, poi, passa il suo tempo a rubare chincaglierie perché vuole bloccare la luce, mentre, dulcis in fundo, la piccola sembra andare in estasi, guidata dal padre, cambiando l’ordine delle parole. Insomma, un polpettone new-age indigesto, che mescola argomenti seri (il misticismo, la società multi-religiosa) con cadute di stile incredibili (la piccola campionessa di spelling ha le visioni durante tutte le gare). Insomma, un’ora e mezza di boiate che hanno pure la presunzione di essere cinema d’autore. Unica emozione: ad un certo punto un cane abbaia furiosamente spaventando la Binoche.
E svegliando di soprassalto la sala.
Elizabethtown
Un giovane Yuppie che vive nell’Oregon fa perdere un miliardo di dollari alla sua azienda disegnando una scarpa sportiva che si rivela un fallimento, e decide di ammazzarsi. La premessa è, obiettivamente, avvincente. Un attimo prima di farla finita, una telefonata della sorella cambia i suoi piani: suo padre è morto, a sud, nel Kentucky, dove era andato a trovare i parenti. Comincia così il viaggio del nostro (un Orlando Bloom che quasi non si riconosce senza corazze, armature e orecchie a punta) nel profondo sud americano, che lo porterà a riscoprire se stesso, la voglia di videre e ovviamente a incontrare la sua anima gemella con lieto fine scontato. Non è scontato il film, pieno di battute intelligenti, situazioni divertenti, una regia raffinata, personaggi di sfondo azzeccati. Peccato solo che tenti di strafare, inserisca qualche luogo comune di troppo sui "rebels", qualche momento di comicità fracassona fuori luogo, qualche passaggio un po’ troppo letterario (la voce fuori campo in questi casi è un accessorio di cui si farebbe a meno), si dilunghi in un viaggio finale che sa di videoclip e che cita persino Martin Luther King (che col film non c’entra nulla). Insomma, un bel film, che con qualche taglio in fase di montaggio (20 minuti almeno) avrebbe potuto essere bellissimo.
Però c’è Susan Sarandon, che avrà i suoi anni ma in fatto di charme sovrasta la insipida Kirsten Dunst.
Simpatico il cameo di Alec Balduin.
La tigre e la neve
Benigni ricalca i terreni fertili della malinconica comicità (o della comica malinconia) già sperimentati con la Vita è bella, e lo fa senza rischiare molto. In alcune scene (memorabile quella del campo di mine antiuomo) c’è il suo talento di mimo straordinario che ricorda i migliori momenti di Johnny Stecchino; in altre (il viaggio in moto e in cammello) c’è quel suo straniamento, quel rapporto con le cose fanciullesco, angelico e diabolico al tempo stesso che rece celebre il Piccolo Diavolo; il altre ancora (la lezione universitaria) si riscopre il Benigni delle ultime fatiche dantesche, quello che coniuga la poesia con la barzelletta. Purtroppo manca completamente la cattiveria del primo Benigni di Berliguer ti voglio bene e il surrealismo di Tu mi Turbi, che avrebbero fatto comodo frenando quel buonismo che ogni tanto emerge fastidioso. E dunque? E dunque siamo di fronte ad un ottimo film, diligentemente costruito, prodotto con cura, con buoni personaggi di sfondo (il collega, le figlie, il medico iracheno) ma siamo lontani dal capolavoro, purtroppo. Intanto la regia è latitante, ma questa non è una novità, purtroppo, per Benigni. Il personaggio di Jean Reno è abbozzato, sospeso, tratteggiato un po’ grossolanamente; ma quello che risulta veramente devastante, insopportabile, pesante, noioso, fuori luogo, insostenibile, inammissibile, irritante, sgradevole e indisponente è il ruolo di Nicoletta Braschi. Mi dispiace dirlo ma le uniche scene in cui recita bene è quando il suo personaggio è in coma; d’altronde anche quando è sveglia l’espressione è identica. Fino a quando dovremo sopportare la presenza della Braschi nei film di Nenigni? Non se ne può proprio fare a meno? ? atona, inespressiva, piatta, spenta, smorta, inefficace, scialba. Non credo la colpa sia solo sua: l’ho vista recitare in altri film senza il marito dove raggiungeva almeno la sufficienza. Ma qui è completamente fuori ruolo, è diretta male, sa di finto, artificioso. Credo non sia un caso che il momento migliore della Vita è bella sia la seconda parte, quando lei scompare. Anche qui, il film funziona nella seconda parte, quando lei sta stesa immobile sul lettino. Quando si riprende, purtroppo è lo spettatore che soffre.
Forse dovremmo organizzare una petizione: 100, 200 mila firme per convincere Benigni a farsi dirigere da un professionista (anche un giovane aiuto regista di buone speranze, anche un mestierante televisivo, ma un regista vero) e per espellere per sempre dai suoi film la Braschi. Basta. Siamo contenti che tuo marito ti voglia bene, passa insieme a lui tutto il tempo che vuoi, sostienilo e accompagnalo, produci pure il film. Ma quando si tratta di recitare, per piacere, lascia spazio ad una che lo sappia fare…
Quo vadiz, baby?
Salvatores torna al cinema di “genere” e questo è un bene per un cinema italiano che si inaridisce nei canoni ritriti della commedia. Il genere stavolta non è rischioso come per Nirvana di qualche anno fa (la fantascienza) ma è comunque impegnativo, il noir psicologico. Come al solito è un maestro nel muovere la cinepresa, nel dirigere gli attori, nel calibrare il linguaggio con toni ora drammatici ora ironici. Come spesso, però, ne è troppo consapevole, induce nella cinefilia, nel gusto della citazione autocompiaciuta, esagerando talvolta sino che scadere in passaggi di lirismo velleitario (soprattutto nelle riprese della defunta protagonista troppo velina per l’88 e quel suo insopportabile “Roma è come una pxxxxna, bla bla) e nella fotografia calligrafica a buon mercato (so benissimo mio malgrado che Bologna è una città piovosa e cupa ma questa sembra la Londra di Jack lo Squartatore).
Tra alti e bassi è soprattutto la sceneggiatura a incespicare: non ho letto il romanzo da cui il film è tratto, ma le coincidenze e i passaggi poco naturali sono troppi per farsi perdonare, e i colpi di scena sono imprevedibili come una pernacchia nei film di Pierino. In sintesi, caro Salvatores, bene la sperimentazione, bene gli attori (tutti bravi, dalla protagonista ai ruoli minori), bene le musiche. Bene anche aver visto tanti film e aver studiato tanto. Però non c’è bisogno di ricordarcelo ad ogni inquadratura…